Economia / La profondità che manca al lavoro che cambia

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È ormai un dato acquisito: globalizzazione, innovazione tecnologica ed evoluzione demografica rappresentano i principali fattori di trasformazione del mondo occidentale. Oltre ad impattare in modo rilevante sull’impresa, sul lavoro umano e sulle nostre abitudini di consumo, tali fenomeni stanno cambiando rapidamente le nostre relazioni sociali e i processi socio-economici, caratterizzandosi sempre più per complessità, incertezza e rischio.
Lo sa bene chi cerca un lavoro e non lo trova, le coppie che ritardano (e talvolta rinunciano a) l’esperienza della genitorialità per ragioni economiche o lavorative, i giovani che non hanno accesso ad un’adeguata formazione superiore in linea con le nuove esigenze del tessuto produttivo o i lavoratori che perdono il proprio posto di lavoro senza reali possibilità di trovarne un altro.

Cambiano rapidamente le competenze richieste dalle imprese, si ricorre a forme contrattuali e ad un’organizzazione del lavoro che richiede più flessibilità e spirito di adattamento, mettendo in discussione i paradigmi tradizionali su cui si è retto il mondo del lavoro nel secolo scorso.

Se quel mondo del lavoro aveva dato luogo ad una certa realtà sociale, il lavoro che cambia ne sta disegnando un’altra che presenta luci e ombre.
Eppure, nonostante gli sconvolgimenti che interessano il mondo del lavoro e la società che cambia, siamo indotti a considerare i mega trend del nostro tempo come verità autoevidenti, correndo il rischio di darli per scontati, di rinunciare ad interrogarsi su ciò che essi possono implicare per l’uomo e, così facendo, di lasciarsi sopraffare dalle loro conseguenze dirette o indirette.

Generalmente, nei loro confronti si registrano due approcci ugualmente sbagliati. Quello entusiastico a prescindere da ogni ulteriore considerazione e, come a fare da contraltare a quest’ultimo, quello pessimistico.

Entrambi scontano il vizio di fondo di una superficialità che rende imprigiona la nostra capacità di pensiero, di analisi, di riflessione e di confronto con gli altri e, con essa, la nostra naturale abilità a distinguere ciò che è buono e ciò che è male, quelli che sono i fini da quelli che rappresentano i mezzi per raggiungerli. Contribuendo ad alimentare quel senso di complessità, incertezza e rischio di cui, specialmente i lavoratori più giovani e quelli meno garantiti, si trovano a fare quotidiana esperienza.
La tecnologia, si pensi alla digitalizzazione, alla robotica e all’intelligenza artificiale, e le sue applicazioni per un lavoro sempre più produttivo, ci pone senz’altro di fronte ad opportunità inedite per l’uomo del nostro tempo. La sua spinta ad andare oltre se stesso, al di là dei propri limiti non è di per sé negativa. V’è, anzi, molto di positivo nel perseguimento della sua naturale attitudine al progresso.
Bisogna però essere consapevoli che esso non è mai unidirezionale. Perché possa tradursi in un effettivo sviluppo umano integrale, il progresso deve infatti saper fare i conti con la finitezza, la limitatezza, la relazionalità e l’esigenza di cura che contraddistinguono l’esperienza umana e che, rendendo l’uomo capace di amare, rappresentano la controspinta necessaria affinché il progresso, la scienza e la tecnologia possano rivelarsi per (e non contro) l’uomo.

Questa superficialità diffusa e pervasiva, certamente favorita da uno stile comunicativo sempre più essenziale e rapido, rappresenta una delle incognite che più pesano sulla direzione di marcia che questi mega-trend stanno imprimendo alla nostra società.

Essa, peraltro, sembra essere il riflesso incondizionato di quella radice umana dei problemi del nostro tempo evidenziata da Francesco nella “Laudato si’” laddove, con la “profondità per semplicità” che contraddistingue lo stile comunicativo di Francesco, il Pontefice ci ha indicato la via di uno sviluppo umano fondato sulla concezione cristiana della persona e sulla sua consapevolezza della crescente interdipendenza tra tutti gli abitanti della terra e tra l’uomo, la natura e la tecnologia.
Rispetto ai problemi del lavoro che cambia e alle legittime preoccupazioni in termini di nuove forme di esclusione, di disuguaglianza, di egoismo e di individualismo che caratterizzano il nostro tempo – raccogliendo l’invito del Papa – c’è forse, innanzitutto, da individuare un nuovo metodo di analisi che, cogliendo la complessità della realtà, sia però capace di metterla in rapporto e in dialogo con la profondità della visione antropologica cristiana, al fine di riportare sulla superfice del dibattito contemporaneo un pensiero più consapevole, arricchito dalla saggezza delle radici della nostra cultura occidentale, fatto non necessariamente di risposte ma, soprattutto, di interrogativi.

                                                                                                        Fabio G. Angelini

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