Il Papa a Redipuglia / Solo “la conversione del cuore” permette di superare quell’“A me che importa?”

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La chiamata a quella responsabilità personale che deve segnare l’impegno di ogni credente nell’ “andare per la strada di Gesù” sta divenendo sempre più la cifra del pontificato di Papa Francesco.

Un impegno esigente che non può essere delegato ad altri e, tanto meno, annacquato immaginandolo affidato, genericamente, alla Chiesa: “lafoto (1) Chiesa – aveva sottolineato il Papa l’anno scorso ad Assisi – siamo tutti! Tutti! Dal primo battezzato, tutti siamo Chiesa, e tutti dobbiamo andare per la strada di Gesù”. “Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle?” era stata la domanda che Francesco aveva rivolto a tutto il Popolo di Dio da Lampedusa: uno schiaffo “alla globalizzazione dell’indifferenza” con cui, ormai, siamo abituati a considerare solamente numeri da affidare alle statistiche quanti attraversano quello che per secoli abbiamo con orgoglio chiamato “Mare nostrum”.

A Redipuglia e a Fogliano, nei luoghi dove centinaia di migliaia di uomini trovarono la morte in quella che un altro pontefice definì inascoltato “l’inutile strage”, Papa Bergoglio, sabato scorso, ha assestato una nuova picconata al muro della “globalizzazione dell’indifferenza” che avvolge il nostro tempo.

Solo “la conversione del cuore” permette di superare quell’ “A me che importa?” pronunciato da Caino e poi ripetuto da milioni di esseri viventi, colpevolmente incapaci nel considerare come inevitabile una guerra che “distrugge ciò che Dio ha creato di più bello: l’essere umano”.

“L’umanità ha bisogno di piangere” ha ribadito il pontefice: se lo farà, riuscirà a superare il concetto di “nemico” con cui l’ideologia ha giustificato e continua a giustificare l’uccisione e l’annientamento degli esseri umani. Nell’ora del pianto non esistono più vincitori né vinti: l’essere umano scopre che chi ha difronte è prima di tutto un fratello.

Le vittime di allora non erano forse uomini e donne che lavoravano portando avanti la loro famiglia mentre i loro bambini giocavano e gli anziani sognavano? Venne ancora una volta la guerra e spezzò tutto questo. La definirono “grande” perché nulla era dimensionato a quanto vissuto in precedenza: non la capacità di morte degli armamenti, non il numero delle vittime che si contarono tanto fra i militari tanto fra i civili, non la scia di orrore con cui segnò nei decenni successivi intere generazioni.

L’uomo è sempre la vittima della follia della guerra, qualunque sia la divisa che indossa o la fede che professa o la lingua che parla.

Le parole del Papa hanno voluto, però, andare a quanto avvenuto cento anni fa: la sua preghiera si è elevata per “i caduti di tutte le guerre”, sottolineando il tragico legame che unisce tutti i conflitti, qualunque sia la latitudine ed il tempo in cui avvengono. Il suo scandire per nove volte “A me che importa?” è divenuto un richiamo alla coscienza di ogni uomo: ciascuno deve sentirsi interpellato a dare il proprio contributo per arrestare “una terza guerra mondiale combattuta “a pezzi” con crimini, massacri, distruzioni…”. Sembra un compito improbo per il singolo credente: eppure è necessario partire proprio dalla condivisione del destino di milioni di uomini e donne vittime di “interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere” dietro cui “c’è l’industria delle armi, che sembra tanto importante!”. E tutto ciò anche se le loro tragiche storie si svolgono in luoghi apparentemente lontani e non trovano più spazio sui mezzi di comunicazione: saranno le violenze etniche, l’odio razziale, la discriminazione religiosa a portare quegli esseri viventi ad incrociare le nostre strade.

Essere capaci di piangere per il prossimo, facendo scendere nel profondo del cuore le immagini delle lapidi dei 100mila caduti italiani del Sacrario di Redipuglia ma anche dei 16mila militari austro-ungarici sepolti nel cimitero di Fogliano, diviene la via per spezzare la catena alimentata, oggi come ieri, dai “pianificatori del terrore, dagli organizzatori dello scontro, dagli imprenditori delle armi”.

Mauro Ungaro

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