Il quadro politico / Il voto anticipato non è il male assoluto se la legge elettorale fa “incontrare” i gruppi

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Italy's voter casts their ballots at a polling station in Bologna on April 13, 2008. Italians began voting in general elections likely to usher conservative Silvio Berlusconi into the prime minister's office for a third time at the expense of new centre-left flagbearer Walter Veltroni. AFP PHOTO / Vincenzo Pinto (Photo credit should read VINCENZO PINTO/AFP/Getty Images)

Il dibattito sulla legge elettorale e quello sulla data delle elezioni procedono di pari passo e rendono incandescente il quadro politico. Di per sé non ci sarebbe un legame diretto tra i due piani, ma è evidente come l’accordo politico tra le principali forze rappresentate in Parlamento comprenda entrambi gli elementi. Anzi, in un certo senso sembra l’accordo sul voto anticipato abbia preceduto quello sulla legge elettorale, ne sia stato la condizione e il fattore propulsivo. Al di là degli esiti, ancora tutt’altro che definiti, del tumultuoso processo in corso, c’è un dato politico che merita di essere sottolineato: per la prima volta i principali gruppi parlamentari, compresi i 5Stelle che finora si erano tenuti fuori da qualsiasi tavolo con gli altri, sono stati capaci di parlarsi e per di più su un tema che intrinsecamente richiede il massimo consenso possibile, quello delle regole per l’elezione di deputati e senatori. È un dato tanto auspicato quanto imprevedibile fino a poche settimane fa. Adesso però ricade sulle stesse forze politiche (che rappresentano più o meno il 70 per cento del Parlamento) l’onere di rispondere in modo convincente a due quesiti decisivi: primo, perché non si possa arrivare alla fine naturale della legislatura all’inizio del 2018, sfruttando al meglio i mesi restanti, tanto più che le ultime rilevazioni Istat indicano una ripresa un po’ meno debole del previsto; secondo, in che modo si possa anticipare il voto (al 24 settembre? A ottobre?) senza lasciare il Paese privo di una legge di bilancio e quindi esposto a rischi economico-finanziari incalcolabili. L’ipotesi più ragionevole di cui si parla è che il governo in carica dovrebbe impegnarsi a mettere in sicurezza i conti dello Stato, approvando una prima tranche di provvedimenti e lasciando al futuro esecutivo la parte sostanziale della legge di bilancio. In pratica, dopo la “manovrina” di primavera ci sarebbe una seconda manovra economica ancora targata Gentiloni e poi la legge di bilancio vera e propria varata dai vincitori delle elezioni. Appunto. Il non detto di questo ragionamento è che tutti sanno che dalle urne non uscirà una maggioranza di governo e che comporne una coesa e credibile sarà un’impresa a dir poco difficile. Del resto, con tre o quattro poli in competizione e con una legge elettorale proporzionale (quale che sia il giudizio specifico su quella in discussione) non è necessario essere dei fini politologi per immaginare uno scenario del genere. Se questa dunque è la prospettiva, ha senso una corsa impetuosa verso le elezioni anticipate che impone una tabella di marcia mozzafiato, magari con la raccolta delle firme e la presentazione delle liste in agosto e una campagna elettorale balneare? Sempre che non ci siano incidenti di percorso, ovviamente. Non si tratta giudicare il voto anticipato come il male assoluto – in democrazia è sempre un esercizio pericoloso demonizzare le elezioni – ma di domandarsi quale sia davvero il bene del Paese in questo momento.

Stefano De Martis

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