Nel cuore della stagione primaverile 2025, il Teatro Massimo Bellini di Catania ha riportato in scena una delle opere più amate e dolorose del repertorio pucciniano: Madama Butterfly. Dal 10 al 17 aprile, con debutto ufficiale l’11 aprile, il teatro etneo ha offerto al pubblico una nuova produzione del celebre dramma in tre atti di Giacomo Puccini, con la regia intensa e simbolica di Lino Privitera e la direzione musicale di Alessandro D’Agostini.
Già dalla prima serata, l’opera si è imposta all’attenzione del pubblico e della critica per la coerenza poetica, l’equilibrio tra tradizione e modernità e un allestimento capace di parlare profondamente al cuore e alla mente.
Madama Butterfly un’opera senza tempo
Composta nel 1904 su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, Madama Butterfly nasce da un soggetto orientale rielaborato da David Belasco e tratto da un racconto dell’americano John Luther Long.
Puccini ne fece la sua opera “più sentita e più suggestiva”, pur trovandosi inizialmente di fronte a un clamoroso fiasco alla prima della Scala. Con il tempo, e dopo diverse revisioni, l’opera venne consacrata al successo mondiale, diventando una delle più rappresentate al mondo. In più, si precisa che “Puccini era fortemente convinto della validità del soggetto esotico e dal potenziale espressivo della geisha sedotta, abbandonata e suicida. Per musicare il dramma, si documentò minuziosamente sulle musiche, gli usi e i costumi del Giappone. Si avvalse persino della collaborazione dell’attrice Sada Yakko e della moglie dell’ambasciatore giapponese in Italia”.

Al Teatro Bellini, la tragedia della giovane geisha abbandonata ha trovato una nuova forza espressiva, grazie a un allestimento che fonde lirismo musicale, estetica orientale e una regia profondamente simbolica.
Il corpo e l’anima: la visione registica di Privitera
La regia di Lino Privitera, che torna a Butterfly dopo l’esperienza del 2019, si distingue per una sensibilità visiva e narrativa rara. Diviene così dirompente l’ensemble di danza, scena e imago, fuso per l’evenienza in un racconto poetico e coerente, in cui il gesto è sempre carico di significato.
L’idea scenica si apre con sei danzatori-antenati, ispirati alla danza giapponese Butoh, che accompagnano spiritualmente Cio-Cio-San nel suo distacco dalla cultura d’origine. La scena – delicata, sospesa, mai caricaturale – restituisce il “Giappone dell’anima”, più che quello da cartolina. I colori pastello, i costumi firmati da Alfredo Corno, i video di Daniel Arena, costruiscono un’estetica vicina all’ukiyo-e, le famose stampe giapponesi su legno.
Nessun esotismo folclorico, ma una dimensione intima e universale, in cui la tragedia di una donna ingannata diventa denuncia, dolore, bellezza.
La musica come narrazione drammatica
Sotto la bacchetta di Alessandro D’Agostini, l’Orchestra e il Coro del Teatro Massimo Bellini – diretto da Luigi Petrozziello – hanno restituito una lettura viva, raffinata e partecipe della partitura pucciniana. Le sfumature dinamiche, la tensione tra amore e inganno, l’uso simbolico dell’Inno americano come critica all’imperialismo, sono emersi con nitidezza ed eleganza.
Dal coro a bocca chiusa, all’aria “Un bel dì vedremo”, tutto in questa produzione parla di attesa, speranza e tragedia imminente, in un unicum assoluto.
Cast: tra debutti imprevisti e prove solide
Nel ruolo della protagonista, il pubblico attendeva Valeria Sepe, ma a causa di un’indisposizione, ha cantato al suo posto Monica Zanettin, offrendo una prova toccante, capace di restituire la fragilità e la forza della giovane geisha.
Accanto a lei, Leonardo Caimi è stato un Pinkerton vocalmente corretto, anche se ‘attorialmente’ trattenuto, a parte la struggente scena finale. Laura Verrecchia, nel ruolo di Suzuki, ha brillato per equilibrio e calore vocale.
Luca Galli, nei panni del console Sharpless, ha offerto una prova autorevole e umanamente intensa, con timbro solido e presenza scenica discreta, ma efficace. Si ricordano, ancora, gli altri attori interpreti: Roberto Accurso nei panni del Principe Yamadori, Gianfranco Montresor in quelli dello zio Bonzo e, non in ultimo, Filippo Micale che impersona l’ufficiale di registro.
Una Butterfly catanese che lascia il segno
La “Butterfly” del Bellini non si limita a una riproposizione filologica. È un’opera che osa, che affonda nelle radici del teatro visivo e corporeo orientale, che riattualizza la figura della donna tradita e che rimette al centro il rispetto della partitura come atto creativo.
In chiosa, si rammenta l’harakiri di Cio-Cio-San, con i lunghi capelli sciolti e i danzatori che ne prolungano il gesto come un’eco visiva. Ecco palesarsi un momento di altissima poesia scenica. La morte della geisha non è solo un epilogo, ma un atto sacro, un rifiuto dell’umiliazione, un gesto estremo di dignità e onore. Infatti, secondo la scena, dopo la romanza Cio-Cio-San saluta il frutto del suo amore. Nella movenza successiva, la giovane sfila dalla custodia il pugnale del padre sul quale è inciso “Con onor muore chi non può serbar vita con onore”. A seguire, si chiudono le colonne di bamboo che isolano il confine di uno spazio intimo, ma sacro.
Il Butoh e l’arte del silenzio che parla
Molto apprezzata anche l’integrazione della danza Butoh, un linguaggio nato nel Giappone postbellico come risposta ai traumi dell’atomica e alla crisi dell’identità culturale.
Nella regia di Privitera, il Butoh diventa allegoria visiva, estensione del dolore e strumento di trasfigurazione emotiva.
Un successo costruito con cura
Il cast alternava, nel corso delle repliche (dall’11 al 19 aprile), nomi di grande rilievo: Myrtò Papatanasiu (Cio-Cio-San), Carlotta Vichi (Suzuki), Carlo Ventre (Pinkerton), Francesco Landolfi (Sharpless), Paola Francesca Natale e Serafima Liberman (Kate Pinkerton), tra gli altri. Un segno della ricchezza di voci e stili che questa produzione ha saputo proporre.
La forza del melodramma che parla al presente
La Madama Butterfly catanese è un omaggio al teatro lirico nel suo significato più alto: arte che non mente, che non si concede a narcisismi, che richiede rigore, umiltà, profondità.
Come già ribadito, Puccini affermava: “La mia Butterfly è l’opera più sentita e più suggestiva che io abbia mai concepita.” E il Bellini ha saputo, ancora una volta, farla vibrare così!
Il Butoh incontra l’opera: quando il corpo racconta l’indicibile
Nel nuovo allestimento di Madama Butterfly al Teatro Massimo Bellini di Catania, la regia di Lino Privitera ha introdotto, con misura e sensibilità, elementi coreografici ispirati alla danza Butoh. Egli ha creato un ponte affascinante tra due mondi solo in apparenza distanti: il teatro musicale occidentale e le forme espressive corporee orientali.
Nato in Giappone alla fine degli anni Cinquanta, il Butoh (o Ankoku Butō, “danza delle tenebre”) si sviluppa in un contesto segnato dalla ferita di Hiroshima e Nagasaki, tra memoria storica, trauma collettivo e desiderio di rinascita. Fondatori di questo linguaggio furono Tatsumi Hijikata e Kazuo Ohno, che mescolarono influenze della danza espressionista europea con codici del teatro classico giapponese.
Il risultato è un linguaggio fisico estremo, capace di tradurre in movimento le zone oscure dell’emotività umana: dolore, vergogna, rinascita, silenzio. I corpi nudi e dipinti, i movimenti rallentati, le pose deformate, diventano icone viventi di una condizione interiore.
Nella Butterfly del Bellini i danzatori come ombre dell’anima
Nel contesto dell’opera pucciniana, Privitera ha utilizzato danzatori ispirati al Butoh come proiezioni spirituali di Cio-Cio-San. Si parla di sei presenze rituali che incarnano il passato, la coscienza, il vincolo ancestrale con la propria cultura. La loro presenza silenziosa e ieratica accompagna la protagonista dalla prima scena fino al suicidio finale, dando al racconto una dimensione sacrale e profondamente sensoriale.
Così, nella scena dell’harakiri, il corpo della protagonista non è solo il centro del dramma, ma diventa moltiplicato, amplificato dai movimenti speculari dei danzatori. Come se il dolore e l’onore di Butterfly fossero così potenti da non poter essere contenuti in un solo corpo.
Un linguaggio che oltrepassa le parole
L’inserimento della danza Butoh, in un’opera come Madama Butterfly, non è un’operazione estetica, bensì una scelta poetica e drammaturgica. In un contesto in cui la parola non basta più, il gesto – spogliato, essenziale, crudo – parla l’unico linguaggio possibile del dolore irreversibile.
In un momento in cui il teatro lirico cerca nuove forme per raccontare l’eterno, il Butoh offre una via profonda, silenziosa e universale, per restituire alla scena e allo spettatore la densità di ciò che non può essere detto.
Luisa Trovato