Racconti / Inedito_1: Nasone

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Qualche decennio fa, in un piccolo centro nell’interno della Sicilia viveva un uomo che faceva l’agricoltore, ma non il coltivatore diretto, visto che non possedeva terre proprie, ma il bracciante a giornata, prestando – a richiesta – la sua opera presso i proprietari terrieri del paese e delle campagne circostanti. E siccome sapeva fare bene il suo mestiere, era molto stimato e ricercato, in tutte le stagioni. Si chiamava Saro ed era un uomo alto e robusto, tutto d’un pezzo, ma aveva una caratteristica fisica singolare: era dotato di un nasone enorme, spropositato, che spiccava vistosamente nel suo viso squadrato. Questo naso gli era valso anche il suo soprannome, perché tutti, da tempo immemorabile, lo conoscevano come “Saru Nasuni”.

Intorno ai trent’anni, girando per le campagne, conobbe una ragazza che gli fece simpatia. Era l’unica figlia di un piccolo proprietario terriero, qualche anno più giovane di lui, graziosa ma riservatissima, alla quale egli non era riuscito a strappare una parola. Ed egli stesso, davanti a tanta grazia e a tanta riservatezza, si sentiva impacciato – anche per via del suo nasone – e quando la incontrava, riusciva solo – mentre il cuore gli batteva all’impazzata – a dirle “Buongiorno signorina”, ottenendone come risposta un leggero cenno del capo. Un giorno prese il coraggio a due mani e si recò dal padre della fanciulla, avanzando la richiesta della sua mano, come si usava fare a quel tempo. Il padre, tale don Ciccino, che lo conosceva bene e sapeva che egli era un gran lavoratore ed un giovane con la testa a posto, non gli fece alcuna opposizione, ma chiamò la ragazza e le espose la sua richiesta. Questa divenne dapprima tutta rossa, poi gli si avvicinò piano e gli sgranò due occhioni spalancati in faccia, fissandone un punto ben preciso: il naso. Dopo di che, con un grido soffocato, esclamò: “Chi nasuni!” e scappò via. Il povero Saro restò di sasso, ma ben conoscendo il suo “patrimonio”, non disse nulla e fece per congedarsi. Anche don Ciccino, il padre della ragazza, restò un po’ sconcertato per il comportamento della figlia, ma per consolare Saro gli disse: “Torna fra qualche giorno e riesamineremo la questione. Nel frattempo io e mia moglie parleremo con nostra figlia e cercheremo di capire qual è il suo pensiero e quali sono le sue intenzioni nei tuoi confronti.”

Il povero Saro si era quasi rassegnato ad essere rifiutato e cominciava a temere di restare scapolo per tutta la vita a causa del suo nasone. Purtuttavia, passata una settimana dalla sua richiesta, tornò nella casa della fanciulla fingendo di trovarsi là per caso poiché stava lavorando in una proprietà vicina, e cercò il padre. Don Ciccino lo accolse con tono formale, ma non freddo, e gli disse che la sua figliola non era rimasta del tutto indifferente alla sua richiesta, ma aveva – come dire – una specie di “timore reverenziale” (per non dire paura o addirittura terrore) per quel suo vistoso attributo e, andando avanti nel ragionamento, aveva espresso delle riserve sulla eventuale discendenza – nell’ipotesi assolutamente fuori da qualunque realtà terrena che la cosa potesse andare in porto – temendo che anche i figli (soprattutto se di sesso femminile) potessero nascere con una siffatta decorazione sul viso. Saro uscì dalla casa più sconsolato che mai, ma mentre andava via incontrò la ragazza (che fino a quel momento non si era fatta vedere per niente) davanti all’uscio. La ragazza al vederlo divenne tutta rossa e coprendosi il viso scappò, attraverso il cortile, verso il retro della casa, senza nemmeno salutarlo.

Passò qualche altra settimana ancora e Saro cominciava a intristirsi, perdendo anche – quasi – la voglia di lavorare. Una domenica mattina, essendo libero dal lavoro, volle spingersi fino alla casa della sua amata e, mentre stava per arrivarci, ne vide uscire don Ciccino, il quale, appena lo vide, gli fece un gran sorriso e lo invitò ad entrare. Lo fece accomodare, gli si sedette accanto e, come se gli stesse facendo una confidenza, gli disse sottovoce, quasi parlandogli in un orecchio, che sua figlia si era convinta a fidanzarsi con lui. Sarò balzò in piedi per la gioia e stava per gridare dalla contentezza, ma don Ciccino lo invitò a stare calmo e lo fece sedere nuovamente. Dopo di che, pregandolo ancora di stare calmo e di non muoversi, andò a chiamare sua moglie e sua figlia. Le due donne entrarono – prima la madre e dopo la figlia – e andarono a sedersi di fronte a Saro e a don Ciccino. Seguì qualche momento di silenzio imbarazzato, in cui nessuno aprì bocca ma tutti si guardavano studiandosi attentamente: don Ciccino e sua moglie guardavano alternativamente Saro e la figlia, mentre Saro non riusciva a staccare gli occhi dalla ragazza; la quale era l’unica, invece, che teneva gli occhi bassi senza guardare nessuno. Finalmente fu proprio la ragazza – che si chiamava Vincenzina, ma tutti la chiamavano affettuosamente ’Nzina – ad alzarsi ed a prendere la parola. “Saro – disse guardandolo in faccia ma come se guardasse oltre per non fissare gli occhi sul suo enorme naso – dalle nostre parti si usa dire ‘ogni nasu sta beddu a so facci’. Tu non sei brutto, ma il tuo naso, senza offesa, è proprio… grosso, ecco. Ma si intona bene con la tua faccia, anzi la fa sembrare più simpatica.” Fece una lunga pausa, mentre i genitori e Saro la guardavano interrogativamente. “E allora – riprese ’Nzina – visto che io ti piaccio, pure io farò in modo che tu mi piaccia.” E così dicendo si alzò, si diresse verso Saro che era rimasto immobile e incapace di parlare per l’emozione, e gli tese entrambe le mani. Saro dopo un attimo di esitazione si alzò e prese tra le sue le mani della ragazza (ma senza permettersi di stringerle troppo e di avvicinarsi a lei), mentre don Ciccino e sua moglie si alzavano in piedi per abbracciare prima la figlia e poi lo stesso Saro. Don Ciccino andò quindi a prendere una bottiglia del suo vino migliore e tutti insieme festeggiarono il fidanzamento.

Dopo un anno di fidanzamento vennero celebrate le nozze, con grande tripudio. ’Nzina si era ormai abituata al nasone di Saro, ed anche quando le sue amiche tentavano di scherzarci su e di prenderla in giro, lei rispondeva sempre a tono, citando il proverbio che aveva riferito a Saro il giorno del loro fidanzamento: ‘ogni nasu sta beddu a so facci’. E così zittiva tutti. Dopo il matrimonio, si erano sistemati in una casetta in campagna, vicina a quella dei genitori di lei. Nel giro di alcuni anni, la loro unione venne allietata dalla nascita di due bei bambini, un maschietto ed una femminuccia. Nel frattempo Saro, con tutto il suo nasone, continuava a fare il suo lavoro, sempre molto ricercato, perché col passare del tempo era diventato sempre più bravo e sempre più esperto nella coltivazione della terra e nella cura delle varie piante, di cui conosceva ormai tutti i segreti e sapeva come farle crescere e fruttificare.

Quando compì sessant’anni, Saro cominciò ad allentare il ritmo del suo lavoro, e cominciò a pensare di mettersi in pensione. I suoceri erano ormai anziani e Saro – che col suo duro lavoro aveva anche messo da parte un piccolo gruzzoletto – lavorava ormai quasi esclusivamente nella proprietà di don Ciccino. Anche i figli erano cresciuti. Ah, per la cronaca, il naso l’avevano ereditato dalla mamma. Entrambi erano andati a scuola e poi all’università. Il grande – che ogni tanto dava una mano al padre nel suo lavoro – si era laureato in Agraria ed era andato a lavorare al Nord. Invece la figlia – che amava tanto gli animali – si era da poco laureata in Veterinaria ed era rimasta a lavorare in zona.

Dopo qualche altro anno ancora, finalmente Saro si decise ad andare in pensione e si ritirò a vita privata. Ma, abituato com’era ad essere sempre in attività ed a spostarsi in continuazione, cominciò ad intristirsi ed a soffrire di noia. Sì, continuava a badare saltuariamente alla proprietà del suocero e ad accudire il suo orticello, ma non era la stessa cosa. Gli mancava anche la presenza degli amici e di tutte le altre persone che era abituato a frequentare e che ora vedeva di rado. La moglie ’Nzina gli era sempre vicina, così come lo era stata nei trent’anni – ed oltre – di matrimonio, durante i quali – dopo la prima repulsione causata all’inizio dal suo nasone – era stata un moglie affettuosissima e devota al massimo. La figlia quando era libera dal lavoro stava sempre con lui e con la mamma, ed anche l’altro figlio ogni tanto scendeva a trovarlo. Ma lui non si sentiva a suo agio, era come se gli mancasse qualcosa. Le giornate non gli passavano mai e la sera andava a letto scontento. Anche il suo nasone sembrava ancora più grosso del solito, perché con l’età le sue guance si erano scavate e gli era comparsa in faccia qualche ruga, mentre il naso, ben piantato al centro della faccia, spiccava come un promontorio.

Fu suo cugino Alfio a trarlo d’impaccio, un avvocato che abitava nel paese vicino e aveva una bella proprietà nelle vicinanze. Poiché egli, a motivo dei suoi impegni professionali, non poteva badare alla sua proprietà se non saltuariamente un paio di volte al mese, e non volendo tuttavia far andare a male tutto quello che c’era, chiese a Saro, ormai libero da impegni di lavoro continuativi, di badare quotidianamente alla sua proprietà, dove c’erano vari filari di viti, numerosi alberi di agrumi e vari alberi da frutto di differenti tipologie, tra cui in particolare ben quaranta alberi di ciliegio, che nel periodo primaverile si riempivano prima di bellissimi fiori bianchi e poi di meravigliosi e gustosissimi frutti; c’era inoltre una zona riservata alle coltivazioni stagionali (patate, pomodori, verdure varie) ed anche una piccola serra dove si coltivavano verdure fuori stagione e fiori. Lavoro ce n’era in abbondanza per una persona – ed anche più – impegnata a tempo pieno. Saro accettò con entusiasmo l’incarico e riprese a lavorare con lo stesso ritmo di prima di andare in pensione. Ogni mattina si alzava presto e con la sua vecchia Fiat 127 verde partiva per la proprietà di suo cugino, restandoci fino a sera. E così le sue giornate ripresero a passargli rapidamente e la sera, quando tornava a casa amorevolmente accolto dalla sua ’Nzina e dalla figlia, era stanco – sì – ma contento e soddisfatto come non mai. Il lavoro procedeva bene, le piante crescevano rigogliose e, sotto le sue mani esperte e sapienti, davano sempre il meglio. Saro si riposava solo la domenica, ma non sempre, perché qualche volta andava a lavorare pure la domenica, specialmente nel periodo della vendemmia o della raccolta delle patate, periodi in cui era pure necessario assumere altro personale temporaneo, che lavorava sotto le direttive di Saro.

Ogni tanto, naturalmente, andava a trovarlo nella proprietà suo cugino Alfio, che quando poteva lo aiutava pure in qualche lavoretto. Un giorno Alfio, guardando la sua bella proprietà, ricca di alberi e di viti, e divenuta ancora più bella da quando la curava Saro, pensò che avrebbe potuto abbellirla anche dal punto estetico piantandovi qualche pianta ornamentale. Ed allora chiese a Saro di procurare dieci piante di mimosa e di metterle a dimora all’ingresso della proprietà. Saro non gli disse ne sì e né no, rispose solo con un mugugno di assenso. La settimana successiva, quando Alfio tornò nella sua proprietà, cercò le piante di mimosa che aveva chiesto a Saro di piantare, ma non ne trovò traccia. Trovò invece, dove lui aveva chiesto a Saro di piantarle, dieci piantine di pero. “Ma che hai fatto? – disse subito a Saro –. Io ti avevo detto di piantare mimose, non peri!”. La risposta di Saro fu pronta: “Ma che mimose e mimose! Le mimose non servono a niente, fanno solo confusione e cattivo odore, sporcano, fanno venire l’allergia e fanno sprecare lavoro. Invece i peri sono profumati, producono frutto e portano guadagno. Ascolta me, caro cugino, che sono vecchio del mestiere. I peri sono molto meglio delle mimose.” Alfio, sebbene a malincuore, non se la sentì lì per lì di contraddire Saro e lasciò correre.

Qualche mese dopo, ad Alfio venne l’idea di dare maggiore imponenza alla proprietà e pensò di abbellire il viale centrale con due filari di cipressi, uno da una parte ed uno dall’altra. Ne parlò con Saro e gli chiese di acquistare una dozzina di piantine di cipressi già cresciutelle e di piantumarle lungo il viale centrale. Anche stavolta Saro non disse né sì e né no, rispondendo col suo mugugno d’assenso. Quando Alfio tornò nella sua proprietà, pensava di trovare, lungo il viale centrale, due belle file di cipressetti, che essendo già cresciutelli – come aveva specificato a Saro – nel giro di pochi anni raggiungessero delle dimensioni considerevoli e facendo bella mostra di sé dessero un tono di prestigio e di imponenza a tutta la proprietà. Ma invece, con sua grande delusione, trovò al loro posto degli alberi di melo, ancora piccoli e striminziti, che sembravano dei cespugli. Chiamò Saro più infuriato che mai e gli chiese che cosa gli fosse passato per la testa a piantare dei meli al posto dei cipressi, come lui gli aveva detto. Saro, come se si fosse già preparato a parare le proteste di Alfio, con molta calma gli rispose: “Alfio, ma i cipressi fanno tristezza, tanto che li usano nei cimiteri. Ed io, pensando che poi magari guardandoli ti sarebbero venuti dei cattivi pensieri, ti ho piantato queste belle piante di melo, che quando poi cresceranno, vedrai che festa e che allegria faranno, sia durante il periodo della fioritura, sia quando saranno cariche di frutti. E le mele di buona qualità, come queste che ti ho piantato, se sapute curare come si deve, si vendono molto bene. Ed io ci so fare, fidati!”. Ancora una volta, aveva prevalso in Saro la mentalità dell’agricoltore su qualunque altra considerazione, ed anche stavolta Alfio, per non bisticciare con Saro, si tenne gli alberi di melo.

Alla fine dell’estate, Alfio, girando per la zona adibita ad orto – quella dove si coltivavano le verdure di stagione – notò che c’erano piantine di basilico, di prezzemolo, di menta, di rosmarino, di origano, e varie altre piante aromatiche; ma non c’era una sola pianta di alloro. “Potrebbe essere utile, qualche pianta d’alloro”, pensò Alfio. “E poi – continuò a meditare –, sono anche piante belle da vedere, con le loro foglie sempreverdi, e potrebbero creare una macchia di colore gradevole.” Detto fatto, chiamò Saro e gli disse di comprare dieci piante di alloro e di sistemarle su un lato dell’orto, perché formassero una bella siepe verde. Saro non disse né sì e né no, come al solito, e rispose con il suo tipico mugugno d’assenso. Per maggior sicurezza, Alfio ripeté a Saro quello che doveva fare, e gli raccomandò: “Allora Saro, hai capito bene, voglio piante di alloro, e nient’altro. Chiaro?”. Altro mugugno da parte di Saro. Stavolta Alfio era sicuro che le cose sarebbero andate per il verso giusto, e che dopo le altre due esperienze Saro non avrebbe più fatto di testa sua. Dopo un paio di settimane Alfio tornò nella sua proprietà. Era quasi autunno, tra poco ci sarebbe stata la vendemmia, le viti erano cariche d’uva e si prospettava un buon raccolto ed una buona produzione di vino. Dopo aver fatto il giro della vigna, Alfio si diresse verso l’orto per ammirare la siepe di alloro che aveva chiesto a Saro di piantumare. Ma quale non fu la sua sorpresa nel trovare, al posto dell’alloro, dieci piante di ciliegio! Stavolta non ci vide più dagli occhi, chiamò Saro con un urlo che venne sicuramente udito in tutta la contrada e gridando a gran voce gli chiese conto e ragione del perché avesse piantato dieci alberi di ciliegio al posto delle dieci piante di alloro da lui richieste. Saro, con tono serafico, gli rispose: “Ma Alfio, che te ne devi fare di dieci piante di alloro? Ti ci devi fare l’acqua bollita per il mal di pancia? E te ne basta una, per questo. Ora te la metto là, in un angolo, così quando ti serve qualche foglia ce l’hai a portata di mano.” E poi proseguì: “Guarda invece come sono belli questi ciliegi! Vedrai crescendo quante belle ciliegie produrranno. Queste poi sono di buona qualità, perché sono metà “mastrantonio” e metà “napoleone”, così da aprile a giugno avrai ciliegie in quantità, di due tipi che maturano in tempi diversi. Dimmi se sbaglio, caro cugino, e dimmi se non ti ho fatto un favore.”

Alfio stavolta non ce la fece più a resistere e sbottò con tutta la stizza che aveva dentro e che aveva accumulato nelle due precedenti occasioni: “Saro, la prima volta mi hai piantato peri al posto delle mimose, e passi! La seconda volta mi hai piantato meli al posto dei cipressi, e anche stavolta l’abbiamo fatta passare. Ma adesso mi vieni a parlare di ciliegi, e mi vuoi spiegare quanto sono belli, buoni, produttivi e convenienti i ciliegi? Saro, ma tu lo sai che qua ci sono già quaranta alberi di ciliegio, di tutte le qualità possibili e immaginabili! E con questi altri dieci che m’hai piantato tu fanno cinquanta! Che ci devo rifornire l’esercito, con tutte queste ciliegie?”

Saro restò qualche minuto in silenzio. Poi, cercando di mantenersi calmo, disse ad Alfio: “Alfio, però tu non mi devi rimproverare così. E per tre motivi: primo, perché sono più anziano di te; secondo perché sono tuo cugino; e terzo perché io sono Nasone!” e qui alzò un po’ il tono di voce per pronunciare bene e con veemenza il suo soprannome. Alfio, che si era un po’ ammansito – ma non tanto – gli ribatté immediatamente: “È vero, Saro, tu sei più anziano di me e sei mio cugino, ed io per questo ti rispetto e ti voglio bene. Ma sappi però – e qui riprese nuovamente a gridare – che se tu sei Nasone, anch’io sono Nasone!!!”. In effetti anche il naso di Alfio (che era figlio di un fratello del padre di Saro), non scherzava tanto come dimensioni, ed anche se nessuno l’aveva mai evidenziato, poteva ben competere con quello di Saro.

Stavolta Saro accusò il colpo, perché si sentì punto in quello che riteneva un suo “privilegio” esclusivo, che gli aveva dato il soprannome e che egli si era portato con fierezza e orgoglio per tutta la vita, anche quando gli aveva dato dei problemi, come quella volta in cui si era fidanzato con ’Nzina. E questa cosa Saro non poteva proprio sopportarla!

Divenuto pallido, si girò senza più profferir verbo, andò mogio mogio a raccogliere i suoi attrezzi da lavoro, se li mise nella sua vecchia Fiat 127 verde, mise in moto e partì a gran velocità, lasciando Alfio di stucco.

Stavolta Saro si mise definitivamente a riposo, e non uscì più dalla sua casa e dal suo orticello.

Nino De Maria

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