Tensione alle stelle in Tunisia. La scrittrice Guidantoni: “L’Europa collabori per la transizione”

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Due mausolei sufi incendiati nel giro di poche ore, attacchi a persone e sedi di partito, proteste contro la disoccupazione, rischio d’infiltrazioni terroristiche dal sud. L’ultimo episodio è avvenuto a Tunisi: in un agguato con colpi d’arma da fuoco è stato ucciso Chokri Belaid, segretario del Partito dei patrioti democratici, uno dei massimi esponenti della più importante formazione politica dell’opposizione tunisina. Intanto, centinaia di persone stanno affluendo in avenue Bourghiba, per protestare davanti al ministero dell’Interno, guidato da Ali Laarayedh, esponente di Ennahda. Insicurezza e tensioni sociali che hanno portato alla proroga, fino al 2 marzo, dello stato di emergenza in Tunisia. A due anni dalla cosiddetta “rivoluzione dei gelsomini” che il 14 gennaio 2011 ha fatto cadere, dopo 23 anni, il regime di Ben Ali, la Tunisia si trova ancora in mezzo al guado di una transizione lunga e complessa. Il governo provvisorio, che si è installato il 23 ottobre 2011, è in proroga e l’assemblea costituente sta lavorando alla nuova Costituzione. Le elezioni, se non slitteranno, sono previste per il 23 giugno. Patrizia Caiffa, per il Sir, ne ha parlato con la scrittrice Ilaria Guidantoni, che vive tra l’Italia e la Tunisia e ha pubblicato di recente il libro “Chiacchiere, datteri e thè. Tunisi, viaggio in una società che cambia” (Albeggi edizioni, 2013).

Disordini, proteste, aggressioni e ora un omicidio: cosa sta accadendo in Tunisia?

“L’omicidio di Belaid è un fatto grave. Innanzitutto bisogna unirsi per dire no ad ogni violenza. Gli altri disordini sono episodi isolati, anche se fanno molto clamore. Il problema delle infiltrazioni terroristiche esiste, soprattutto al Sud, nelle zone vicino al confine libico e algerino. Però almeno per adesso sono infiltrazioni esterne. Per fortuna fino ad ora il governo tunisino non è complice, ma vittima. Dobbiamo cercare di sperare che ci sia una coscienza della società civile capace di vigilare su alcune degenerazioni dei cosiddetti salafiti e sull’aggressività contro la corrente sufi islamica. I sufi credono nei santi e di recente sono stati attaccati da una linea integralista rispetto a questa integrazione del Corano che esclude qualsiasi venerazione dell’umano. Perciò è importante che la popolazione sia vigile”.

Negli ultimi tempi si dibatte sul velo, i salafiti attaccano anche le iniziative culturali. C’è chi teme una deriva verso l’estremismo religioso. Una minaccia reale?

“Il giudizio della popolazione è molto frammentato. C’è una spinta laicista che grida allo scandalo per il ritorno alla religiosità. C’è invece una parte della popolazione e della rappresentanza politico-religiosa che evidenzia come il ritorno alla religione voglia dire, invece, il recupero di una tradizione e di un’identità molto lontane dal wahabismo saudita. Non dovrebbero esserci questo tipo d’infiltrazioni perché per EnnaDha, la corrente dominante attualmente al governo, la salafiyya e il wahabismo sono infiltrazioni, non sono il recupero della tradizione originaria tunisina. Il tema della teocrazia è escluso perché non appartiene alla tradizione musulmana. Sicuramente c’è una parte del mondo laico tunisino che è molto preoccupata per i diritti umani, nel momento in cui una parte prevalesse sull’altra. Qualcuno dice che la Tunisia assomiglia più alla Turchia e non potrà mai diventare un Iran, soprattutto perché c’è una coscienza femminile molto forte. Ci sono delle leggi, anche se si sa che le normative non reggono di fronte a un possibile colpo di Stato”.

Una transizione lunga e difficile, dunque…

“Ogni transizione ha le sue incertezze e contraddizioni che vanno elaborate. Un suggerimento che si può dare, sia alla Tunisia, sia all’Europa nel rapportarsi alla Tunisia, è quello di non gridare all’allarmismo guardando il domani ma lavorando sull’oggi. Perché è sulla transizione che occorre lavorare per costruire il domani, che non arriva all’improvviso come un’invasione. Ci si prepara costruendo delle dighe per arginare le piene. Il messaggio è: organizzarsi in associazioni, mantenere vigile la coscienza civile, lavorare affinché ci sia più lavoro con condizioni accettabili. Una società civile matura, stabile, che non si faccia prendere dall’emotività. Evitare uno scontro frontale, anche da parte della spinta laica. Perché dove muore il dialogo, muore la possibilità di una transizione democratica”.

 

I tempi per costruire una democrazia sono lunghi. Quali prevede per la Tunisia?

“Per la Tunisia dobbiamo pensare almeno ai 4 anni di un governo definitivo che abbia una prova d’orchestra reale. Come dicono in molti, ‘tra il fidanzamento e il matrimonio c’è un salto notevole’: finché il partito al governo, con la coalizione di sinistra, è in prova, si sente sotto esame. Nel momento in cui sarà riconosciuto come definitivo, presumibilmente cambierà alcuni caratteri”.

Molte aspettative della piazza non sono state ancora soddisfatte. Potrebbe verificarsi un’altra rivolta?

“Questa sensazione comincia a serpeggiare in Tunisia da un po’ di tempo. La popolazione comincia a pensare che la vera rivolta debba ancora avvenire. È stata una rivolta romantica e ingenua ma difficile da evolvere e da gestire perché con la piazza non si governa. Per attraversare una transizione, che è un momento lungo, doloroso e complesso, ci vogliono, sia a livello intellettuale, sia politico, delle figure di riferimento per drenare ed organizzare le forze”.

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