Chiesa / La nuova vita della Cattedrale di Agrigento: un romanzo scritto “a più mani”

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Ho avuto il privilegio di entrare in cattedrale al termine dello smontaggio completo delle impalcature che, per 2.920 giorni (8 anni), hanno nascosto il volto bello della “mamma” a fedeli e turisti. La sensazione è stata di immensa gioia. Rivedere la cattedrale restituita alla sua maestosità e bellezza, mi ha commosso, anche ripensando a tutti i momenti significativi della mia vita che ho vissuto lì dentro, come l’ordinazione presbiterale, come quelli della città e dell’arcidiocesi di Agrigento. Per un attimo, chiudendo gli occhi ho avuto la sensazione di sentire riecheggiare il suono dell’organo e l’assemblea intonare quella specie di “colonna sonora” che accompagnava l’ingresso del vescovo e dei ministri in occasione delle celebrazioni: “Popolo regale, assemblea santa, stirpe sacerdotale, popolo di Dio, canta al tuo Signor…”.

E ripercorrendo il perimetro interno delle cappelle e delle absidi, finalmente sgomberato da impalcature, sentivo riecheggiare in me, come una guida, la voce di mons. Domenico De Gregorio quando, nei ritagli di tempo, mi parlava dei personaggi, degli emblemi, dei monumenti custoditi in cattedrale, frutto di quasi mille anni di costruzioni, rifacimenti, ampliamenti, restauri e consolidamenti, che ne hanno fatto un edificio unico. Unicità non solo per la sua imponenza ed eleganza ma anche per la varietà degli stili e la ricchezza delle opere d’arte in essa contenute.

Oggi si presenta come un’ampia costruzione a tre navate, a croce latina, dal transetto poco allungato dove è possibile scorgere – come un romanzo scritto “a più mani”, dove ogni autore riprende qualcosa del precedente – diverse testimonianze artistiche: arabo-normanno, gotico chiaramontano, rinascimentale e barocco.

E, mentre guardo il rosone del transetto, mi sembra ancora di sentire la voce di mons. De Gregorio che mi racconta come la cattedrale, nel suo primo nucleo – e, mentre parlava, gli occhi gli si illuminavano – fu fondata da Ruggero I (1060-1101), che affidò la diocesi di Agrigento, a Gerlando di Besançon (1088). Secondo quanto riportato nel “Libellus de successione pontificum Agrigenti”, un documento del XIII secolo che mons. De Gregorio mi mostrò in una delle visite all’archivio capitolare custodito nella torre, Gerlando di Besançon completò la costruzione della cattedrale in sei anni con l’episcopio (1093-1099).

Davanti all’affresco di S. Gerlando che predica agli agrigentini, collocato nell’abside, mons. De Gregorio ricordava a tutti, anche ai turisti che nel mentre si univano alla nostra visita, che san Gerlando fu il primo vescovo di Agrigento (1088-1100) dopo la liberazione dal dominio islamico, rievangelizzatore della diocesi. E ancora, davanti all’altro affresco di S. Giacomo (il Matamoros) che scaccia i Mori, ci ricordava come la cattedrale fosse stata dedicata da san Gerlando alla Beata Maria Vergine Assunta, a san Giacomo Maggiore (perché Agrigento era tornata cristiana il 25 luglio 1086) e a tutti gli altri apostoli. Solo nel 1305 venne dedicata anche a san Gerlando.

Dinnanzi ai segni del dissesto della navata nord, mons. De Gregorio teneva a precisare come le alterne vicende della cattedrale fossero legate sia ad eventi naturali (frane e smottamenti) sia a vicende storiche, e aggiungeva che, quasi tutti i vescovi che si sono succeduti sulla cattedra di Gerlando, hanno dovuto mettere mano al portafogli per ricostruire, rinforzare, consolidare, ma anche per ampliare, abbellire e decorare la chiesa Madre di tutte le chiese della diocesi.
Tappa obbligata della visita era la sosta davanti la statua di san Gerlando, custodita nella omonima cappella fatta costruire da mons. Traina, anche questa ormai sgombra oggi di impalcature. Davanti alla statua del Jacopelli, il monsignore si inchinava, si toglieva il berretto e recitava una breve preghiera: “S. Gerlando proteggi noi e la Chiesa agrigentina”.

La S. Messa il giorno della riapertura della Cattedrale

E avviandoci verso l’altare maggiore, raccontava come sotto il vescovo Giovanni Horozco de Leyva de Covarruvias (1594,1606) la cattedrale chiaramontana fosse stata allungata verso Oriente con l’aggiunta delle colonne rotonde di stucco, dopo il primo arco trionfale, e poi chiusa con un muro cui erano addossati i tre altari – quello della Madonna, l’altar maggiore e quello del Santissimo Sacramento – e come successivamente il vescovo Francesco Gisulfo (1658-1664) l’avesse prolungata nella stessa direzione orientale includendovi l’attuale transetto. Secondo mons. De Gregorio questo doveva coincidere con l’antica chiesa costruita da san Gerlando.

La visita alle cappelle laterali absidali – della Madonna, a sinistra, la maggiore, e del Sacramento a destra – era un tuffo nella storia, nell’arte e nella teologia. Passava in rassegna, uno ad uno, gli emblemi che ci faceva ammirare fin nei minimi particolari con un binocolo che teneva sempre in tasca e che tirava fuori per l’occasione.

Proseguendo il giro, davanti alla cappella De Marinis ci spiegava come agli inizi del ‘900 fu il vescovo Bartolomeo Lagumina (1899-1931) a riportare la cattedrale, seguendo la sensibilità culturale del tempo, all’aspetto medievale. Fu liberando le pareti laterali dagli altari che vi erano addossati e da cornici, tribune e timpani barocchi che le ornavano – ricordava mons. De Gregorio – che venne alla luce l’elegantissimo sacello chiaramontano, dove – fino alla chiusura al culto del 2011 – sono state conservate, in una cassa reliquiaria d’argento, le reliquie del Santo.
Davanti al maestoso organo a canne non mancava mai un ricordo per mons. Peruzzo, il vescovo che lo aveva fatto realizzare e  che lo aveva consacrato presbitero.

La visita alla navata nord, dove sono custoditi i monumenti sepolcrali dei vescovi agrigentini era una rilettura della storia della nostra Chiesa, con eventi, aneddoti, imprese, riconducibili ad ogni singolo vescovo, Gisulfo, Gioeni, Lucchesi Palli, fondatore della biblioteca Lucchesiana…
La cattedrale, che oggi (22 febbraio 2019) viene riconsegnata alla città come luogo di memoria e del futuro, è un vero e proprio scrigno d’arte, di fede e cultura, incastonato in uno scrigno più grande, il centro storico di Agrigento.

Uscendo dal portone della cattedrale, oggi finalmente spalancato, è possibile scorgere da un lato il mare e dall’altro il monte Cammarata. Ed anche possibile vedere sorgere il sole da un lato e dall’altro tramontare, cogliendo così il valore del tempo. Credo che la vicenda della cattedrale, “spazio chiuso” per così tanto tempo, sia un invito alla conversione, che il Signore fa alla nostra Chiesa.

Papa Francesco in Evangelii Gaudium (n. 222) afferma: “Il tempo è superiore allo spazio. Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo”.
Rientrare oggi, dopo più di 8 anni, nello spazio della cattedrale, non distolga la nostra Chiesa dal dare priorità al tempo, cioè ad “occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi”.

Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, che va sempre avanti e non torna mai indietro. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuova vitalità nella società e che coinvolgono altre persone e gruppi, chiamati a portarle avanti, finché queste giungeranno – un giorno – a portare importanti frutti nella storia.
Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci. Questo criterio è molto appropriato anche per l’evangelizzazione, che richiede un lungo cammino e processi possibili, tenendo sempre presente l’orizzonte.
Quell’orizzonte che si scorge dalla Cattedra di san Gerlando: la comunione dei santi, che unisce la terra al cielo e che ci proietta verso la pienezza, oltre il limite di ogni spazio.

Don Carmelo Petrone
 direttore “L’Amico del Popolo” (Agrigento)

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