Editoriale / Non venitemi a raccontare che “va tutto bene”

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Non venitemi a raccontare che «va tutto bene». A un mese dall’inizio della cosiddetta Fase 2 ho il sentore che la pandemia, con il dolore, l’ansia e la paura che ha comportato, non ci abbia reso migliori.
È stata soltanto una confortante illusione. Basta un dato per rendersene conto: l’aumento esponenziale delle risse nelle piazze e nelle vie delle nostre città (Pavia e Voghera sono un esempio) nel fine settimana quando le notti della movida sono teatro di pestaggi, schiamazzi, scorribande di ragazzini.  Oppure basterebbe notare l’inciviltà di chi lascia in giro mascherine e guanti usati senza rispetto per il decoro urbano, la collettività, il lavoro prezioso dei netturbini.
Cosa diciamo, adesso, ai nostri bambini che durante il lockdown, costretti in casa, ci hanno regalato bellissimi disegni colorati, con l’arcobaleno, e la scritta «andrà tutto bene»? Il Coronavirus ha lasciato una scia di lutti, di addii inevasi; un’economia in ginocchio; un sistema-scuola che fatica a progettare il futuro; nuove sacche di povertà e di disagio.
E poi ha lasciato (quasi) tutti noi esattamente com’eravamo prima della diffusione del contagio. Anche generalizzare è contagioso – oltre che sciocco – e non ho dubbi sul fatto che ogni persona debba fare i conti con la propria storia e le proprie esperienze.
Che cosa significa, poi, “essere migliori”? Cambiare il nostro punto di vista, ascoltare gli altri, accogliere opinioni diverse, usare carità, essere consapevoli dei nostri difetti, rispettare l’ambiente? Sarebbe già un buon punto di partenza per sostenere che il brutto periodo che abbiamo alle spalle non è passato invano. Nulla, però, è perduto. Il cristiano, l’uomo di fede, impegnato a costruire sempre una città migliore sulla terra a somiglianza di quella che è nei cieli, non perde mai la speranza.
Che cosa dobbiamo dimenticare? Penso, principalmente, all’abitudine a vivere di divisioni, anche nelle nostre realtà parrocchiali. Sentivamo forte il desiderio di essere comunità, a incominciare dalla celebrazione della Messa, quando non potevamo ritrovarci insieme in chiesa.
Oggi lo possiamo fare e sarebbe bene mettere da parte le paure.
Il nostro vescovo, in una recente intervista ad Avvenire, ha detto: «Basta tornare a incontrarci. Tra le espressioni più infelici di questi giorni c’è quella del “distanziamento sociale”. Intendiamoci: manteniamo tutte le distanze di sicurezza con senso di responsabilità. Ma la nostra società ha bisogno di crescere nella verità di relazioni umane che siano espressione di vicinanza all’altro, che non è un nemico ma un fratello.
Siamo mascherati, ma possiamo tornare a guardarci negli occhi. La parrocchia dovrebbe essere il luogo privilegiato dell’incontro con Cristo e con i fratelli». E su ciò che ci ha insegnato il tempo della pandemia, ha aggiunto: «Non dobbiamo aver fretta di archiviare questa esperienza. Abbiamo molto da imparare. Accenno a qualche aspetto. Saper dare tempo all’essenziale; riscoprire la priorità della mia relazione con Dio; lasciare che la domanda della sofferenza e della morte interpelli seriamente la mia fede; verificare l’opportunità e l’efficacia delle parole e dei gesti con i quali annuncio la sua Pasqua».
La relazione con l’altro: si riparte da qui, come ogni volta. E se non «andrà proprio tutto, tutto bene» qualcosa, di certo, «andrà meglio».

Matteo Colombo
direttore “Il popolo” (Tortona)

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