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Aumento dell’Iva, c’è chi fa il furbo

Se la chiamano furbizia italica, qualche motivo ci sarà. Il governo ha recentemente aumentato l’aliquota Iva dal 20 al 21%, e solo quella: invariate le altre due al 10 e al 4%. Un’aliquota che non si applica ai generi di prima necessità: gli alimentari, ad esempio. E su un’automobile del valore di 10mila euro, comporta una maggiorazione di prezzo di 100 euro. Teorica. Perché è talmente risibile che in molti l’hanno “assorbita” nel vecchio prezzo, in pratica abbassandolo dell’1%. Piuttosto che ritoccare i listini di vendita, in tempi così grami…

Eppure, chissà come mai, c’è chi ha approfittato del momento per cancellare i vecchi prezzi e scriverci i nuovi, ben più maggiorati rispetto all’1% in questione. Oppure su prodotti che nulla hanno a che fare con l’aliquota Iva. Il pane, ad esempio: fioccano i casi di michette e ciabatte a 10 centesimi in più al chilo; o il cornetto con cappuccino più caro nelle grandi città – come ha denunciato Il Sole 24 Ore. Tutti casi in cui le vendite – per una ragione o per l’altra – andavano bene: perché non approfittare per arrotondare ancor più i guadagni? Certi aumenti, fatti in simili momenti, sembrano avere la giustificazione scolastica incorporata: “Signora mia, sono cresciute le tasse, l’Iva…”.

Anche alla pompa di benzina ci sono state parecchie sorprese: visti i prezzi stratosferici, le compagnie distributrici avrebbero potuto serenamente assorbire quel punto percentuale. Al contrario, molti prezzi sono cresciuti e ben di più dell’inezia prevista. Ma qui non si capisce più se è per colpa dell’Iva, di Gheddafi, della speculazione internazionale, del freddo o del caldo. L’unica cosa certa è che il gasolio è costato ovunque di più. Il che fa intuire una grande armonia tra presunti concorrenti quando si tratta di stabilire il prezzo di vendita dei carburanti.

È così che rischiano di avverarsi le paure di chi paventava una crescita dell’inflazione (a redditi inchiodati), per tale decisione governativa. In teoria non avrebbe dovuto accadere, proprio perché i consumi sono in forte stagnazione. Non è un’opinione: uno dei barometri più sensibili è quello delle vendite al dettaglio di super e ipermercati. Dopo tanti anni di continua crescita, le vendite sono in contrazione così come i fatturati e i margini della stessa grande distribuzione organizzata: si vende solo se c’è sconto o promozione, con i consumatori diventati agili come cavallette nel saltellare di qua o di là alla ricerca della spesa più conveniente o del sottocosto più allettante.

Ecco, questa è pure la contromossa che qualsiasi consumatore può adottare contro i furbetti del cartellino (prezzi): cambiare bar, comprare il pane nell’altro forno, non subire insomma ma sperimentare le virtù della concorrenza. Almeno laddove c’è. Perché un altro grande problema italico è quello dei settori economici ingessati, dei monopòli, dei cartelli dei prezzi, dei blocchi che vengono posti da chi sta dentro un fortino ben remunerato e non intende né abbassare gli introiti, né spartirli.

L’Istituto Bruno Leoni ha misurato, come ogni anno, quali e quanti siano i settori economici in cui la parola “concorrenza” mette brividi se non orrore. Energia, infrastrutture, trasporti, certe prestazioni professionali e altro ancora. Se il consumatore può far molto laddove abbia possibilità di scelta, può invece solo subire un costo del metano che in Italia è di media il 20% superiore al resto dell’Europa, o servizi postali e ferroviari che non hanno quasi mai alternativa.

Questa è una riforma che la grandissima lobby dei cittadini-consumatori deve pretendere dalla politica; anche se quasi sempre l’hanno vinta le piccole ma agguerrite lobby di chi, da tale immobilismo, ha solo da ingrassarsi.

Nicola Salvagnin (Sir)

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