Dieci anni fa la morte / Don Luigi Giussani, l’educatore che diceva: “Tu giocati”

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Appuntamento a Roma il 7 marzo con Papa Francesco per il decennale della scomparsa di don Luigi e per i sessant’anni di vita di Comunione e Liberazione. Don Julian Carron, presidente della Fraternità, nella lettera di ringraziamento ricorda l’insegnamento del fondatore: “Ci ha educato a guardare il Papa per questa sua rilevanza unica nella nostra vita”

Moriva dieci anni fa, il 22 febbraio 2005. Il ricordo di don Giussani, il fondatore del Movimento di Comunione e Liberazione, anziché sbiadirsi nel tempo, acquista sempre più spessore e nitidezza. Incontri, rievocazioni, testimonianze, in forza anche del libro “Vita di don Giussani”, uscito nel 2013: una ricchissima biografia del Don Giussani alla lavagna durante una lezionegiornalista Alberto Savorana, con oltre 130 presentazioni in tutta Italia. Ora alla luce di questi incontri generati da un testo di “carne” più che di carta, ne sta per uscire un altro: “Un’attrattiva che muove”. Nel frattempo tre anni fa è stata richiesta l’apertura della causa di beatificazione, istanza accettata dal Cardinale Angelo Scola. Più scorrono gli anni, più la sua memoria cresce ed alimenta storie imprevedibili, per osmosi, per contagio. Come l’incontro di Roma del 7 marzo prossimo. Sì, perché la sfida di questa esperienza ha messo insieme, non casualmente, due ricorrenze significative: il decennale, appunto, della scomparsa di don Luigi Giussani ed i sessant’anni di vita di Comunione e Liberazione. E le due date a breve saranno celebrate con un’udienza in Piazza S. Pietro che Papa Francesco ha concesso a tutto il Movimento di Cl. Don Julian Carron, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione ha espresso la sua gratitudine in un’apposita lettera: “Il mio pensiero va a don Giussani, che ci ha educato a guardare il Papa per questa sua rilevanza unica nella nostra vita. Con il trascorrere degli anni cresce la riconoscenza per il dono della sua persona, della sua testimonianza e della sua dedizione totale nell’accompagnare ciascuno di noi affinché potesse diventare più maturo nella fede”.

A distanza di dieci anni si continua a rendere presenza viva un uomo che ha fatto del criterio del coinvolgimento personale dell’io con l’avvenimento di Cristo lo scopo del proprio esistere e di tutta la sua opera. Egli è stato un grande educatore. In tempi in cui all’inizio in maniera quasi impercettibile, alla fine degli anni ’50 quando ancora il cattolicesimo italiano sembrava “trionfante”, egli percepì che l’io era il grande assente della pedagogia cattolica e che questo avrebbe condotto alla deriva. Non bastavano i numeri, non bastava la riproposizione anche efficace di iniziative, non bastavano i mega-assembramenti. Bisognava che l’io si giocasse. Bisognava che la libertà prendesse il suo peso. Bisognava insomma che la libertà vincesse la battaglia sulla convenzione, perché fiorisse nel cuore di ogni cristiano la convinzione che conduce alla comunicazione necessaria della conoscenza. Una cosa non è conosciuta, dice il grande Tommaso cui spesso Giussani si rifaceva, finché non è comunicata. Sommo pedagogo, ebbe a cuore questo elemento distintivo assolutamente indispensabile: tu giocati.

Ma questo coinvolgimento, questo cambiamento non lo si può realizzare da soli, né applicando un automatismo. Don Giussani ci ricorda che il suo amato poeta Leopardi ha avuto un’approssimazione, una vicinanza alla soluzione, ma ha ceduto perché non ha avuto compagni. Ci vuole tempo ed occorre seguire qualcuno. Con tale certezza ha speso il proprio vivere con passione, nella consapevolezza che tutto, proprio tutto, è per una realtà positiva. Non è un caso che Cl nasca di fatto nell’istante in cui don Giussani, osservando un gruppetto di studenti comunisti, ne coglie l’aspetto positivo, cioè la loro amicizia, il loro saper essere visibili. In quell’attimo don Giussani si accorge che i cristiani non erano così, non erano visibili, non erano una “presenza”.

Per lui tutta la realtà è segno. Non si esaurisce in quello che si vede e si tocca, ma rimanda oltre, è il famoso “tutte le cose portano scritto: più in là”, di Montale. Tutto era l’emergere ai suoi occhi di una profondità che andava oltre il dato effimero. E che lo portava a dire: “Io non voglio vivere inutilmente”. La frase chiave, non ad effetto, quindi non uno slogan, ma il riverbero di una storia, l’espressione di una presenza che genera un popolo e che lo rende presente più che mai. Ora quel popolo è in cammino verso Roma, guidato dal suo carisma, ma guardando il Papa, la continuazione della Chiesa, la sua Chiesa.

Carlo Cammoranesi (*) direttore “L’Azione” (Fabriano-Matelica)

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