Giovani violenti: come rispondere?

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Tra le notizie di cronaca dei giorni scorsi, colpisce in particolare la vicenda di Manfredonia, che ha come protagonisti alcuni minorenni e un loro ex insegnante, con disabilità motoria. I ragazzi lo ricattavano da tempo e lo vessavano con estorsioni, soprusi vari, minacce, tra cui quella di dare fuoco alla sua auto, un mezzo speciale con i comandi adatti alla disabilità dell’uomo, suo unico mezzo di locomozione.

Due ragazzi hanno 15 anni, un altro 16, un altro ancora 17. La loro vittima 43.

Verrebbe da chiedersi come mai un uomo, un insegnante, dunque con una funzione che si misura, tra l’altro, con l’autorevolezza e l’autorità, sia rimasto vittima così a lungo (si parla di oltre un anno, le violenze hanno avuto inizio nel 2010) di un gruppetto di ragazzini. Nello stesso tempo ci si può domandare come possa, un gruppetto di ragazzini, mettere in atto non occasionalmente, ma in modo sistematico, comportamenti violenti, intimidatori e particolarmente odiosi. Comportamenti che di norma vengono classificati come bullismo. E anche su questo termine bisognerebbe fare una riflessione: in qualche modo minimizza la situazione, riconducendo l’accaduto a “una cosa di ragazzi”, per quanto odiosa. Forse, invece, bisognerebbe usare termini diversi e più appropriati alle azioni dei “bulli”, ricordandone anche la rilevanza penale, in qualche modo richiamando senza sconti alle responsabilità, prendendo gli stessi protagonisti “sul serio”.

Un’altra domanda potrebbe riguardare il contesto all’interno del quale si è svolta la vicenda: possibile che i ragazzini abbiano agito nel deserto? Che nessuno si sia accorto di nulla e che per così tanto tempo non ci sia stata reazione? Dov’erano le famiglie? E i compagni? E qualche adulto non addormentato? Possibile che il docente di 43 anni si sia trovato in una gabbia di solitudine così terribile da non far trapelare nulla? La scuola, ad esempio, dov’era?

Possibile, evidentemente. Tutte queste domande provocano la riflessione. Magari a partire proprio dalla condizione di solitudine e di emarginazione nella quale può trovarsi chi vive già una condizione di fragilità. Non è facile chiedere aiuto e non sempre gli occhi altrui – i nostri, in fondo – sono allenati a cogliere i segni di disagio, le richieste di chi ha bisogno. Per certi versi la stessa cosa vale per i ragazzini, la cui violenza è esplosa contro chi non poteva difendersi. Ma sicuramente avrà dato segnali che potevano essere colti. Ecco, ancora una volta viene interpellata l’attenzione degli adulti, degli educatori. Certo ora, ad esempio, il problema è agire per il meglio, dosando punizione e riscatto, rigore e nuove opportunità. Ma la vicenda richiama anzitutto la possibilità/capacità di vedere prima, di prevenire. E questa, a sua volta, rimette in gioco un modello di relazioni e di attenzioni, nella famiglia e nella società, che parlano di reciprocità e di responsabilità condivise, dove il “prendersi cura” diventa un’abitudine consolidata.

In questa direzione, siamo convinti, si deve e si può andare.

Alberto Campoleoni

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