Una Sicilia arretrata e chiusa in opposizione ad un’America democratica e progressista. Su queste due linee storiche si muove il volume “Il paese dei cavalieri” di Domenico Palermo. Non è un libro storico accademico – ci tiene a sottolineare l’autore -, però è stato fatto reperendo da molti archivi storici”.
Il volume si basa sulle ricostruzioni storiche e antropologiche dell’italo-americano Vincenzo Petrullo, che sbarcato in Sicilia, in piena seconda guerra mondiale tra le truppe degli alleati, non ha risparmiato le sue critiche, anche se velate, a un’isola patriarcale e involuta. La cui pietra di paragone è la cittadina etnea di Randazzo. Un male a cui solo l’illuminata pedagogia americana poteva porre rimedio.
Ma adesso la parola ai nostri relatori che venerdì 30 maggio, nella sala “Cristoforo Cosentini” della biblioteca e pinacoteca “Zelantea” di Acireale, hanno presentato e intavolato un discorso sul libro già citato.
I relatori
A fare gli onori di casa il presidente dell’”Accademia degli zelanti e dei dafnici”, Michelangelo Patanè. “Il paese dei cavalieri è un volume scorrevolissimo, scritto in punta di penna – ha detto. Non volendo rubare altro tempo, dò la parola a chi mi è di fianco”.
“Non sono uno storico, e da giornalista dovrei stare dall’altra parte a porre domande – ha esordito il moderatore Giuseppe Vecchio, direttore de “La Voce dell’Jonio” -. Però qualche domanda voglio porla a Domenico, come: quanto c’è di storia, e quanto c’è di leggenda? E cosa rimane di questo periodo storico?”

Saija: La vita siciliana dall’Ottocento al Novecento
Dopodiché il relatore Marcello Saija ha tracciato un quadro della vita siciliana dall’Ottocento al Novecento: “Si legge che il feudalesimo sia morto nella nostra isola nel 1812 con la promulgazione della costituzione siciliana. Non è andata proprio così; e, se ha regalato più libertà ai contadini, da un lato è stato l’inizio dell’organizzazione della mafia.
La condizione feudale in Sicilia dura fino agli anni cinquanta: un’arretratezza sociale coestensibile a tutte le province della regione. E questo lo vediamo esemplificato nella cittadina di Randazzo. Le solite quattro famiglie, un esempio la dinastia Vagliasindi, come i bruchi del formaggio, attraverso la politica facevano gli affari dei cittadini e gli affari loro. La maggior parte delle terre apparteneva a loro”.
“Il mio compito non è parlare del volume ma renderlo appetibile – ha dichiarato il relatore mons. Giovanni Mammino -. Un’analisi storica di Randazzo, a cavallo tra otto e novecento, in cui la donna aveva come massima aspirazione fare la casalinga. E qui la forte divergenza che Petrullo farà notare con l’emancipata e indipendente donna d’oltreoceano”.

La parola all’autore
La parola finale all’autore il quale può finalmente rispondere alle domande di Vecchio: “Quel che ho scritto io è solo storia, di leggenda non v’è traccia. Il mio libro non è storico in senso accademico, ho voluto raccontare la Randazzo della prima metà del secolo scorso. Rispondendo al secondo interrogativo, quel che resta di Randazzo è l’amore che i cittadini hanno per il loro passato: la nobiltà feudale. Io ho voluto dare voci ai personaggi dimenticati della città: il visconte Vagliasindi e Vincenzo Petrullo. Senza dimenticare il contesto sociale… Randazzo metafora della condizione siciliana della prima metà del ventesimo secolo”. Dunque: Randazzo caput Siciliae
Durante l’incontro due letture sono state declamate da Ezio Donato, cui il libro deve essere piaciuto parecchio, a sentire i suoi articolati commenti alle letture stesse.
Giosuè Consoli