Quando la gente vedrà

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Un atleta nella persona in carrozzina: questo dal 29 agosto a Londra il grande risultato

Oscar De Pellegrin alfiere, con la Vezzali, degli azzurri a Londra: “Dobbiamo valutare la persona non per l’aspetto esteriore ma per le qualità che può esprimere. È il messaggio fondamentale che il movimento paralimpico vuole dare, perché siamo parte integrante della società”.

Cinque Paralimpiadi di fila, da Barcellona ‘92 a Pechino ‘08, con la conquista di 1 oro e 4 bronzi in due discipline diverse. Un palmarès che annovera 58 titoli italiani, 11 record nazionali, 2 record mondiali e la possibilità di incrementare il bottino ai prossimi Giochi paralimpici estivi che si terranno a Londra dal 29 agosto al 9 settembre. Oscar De Pellegrin è abituato a centrare il bersaglio nella vita. Nato a Belluno nel 1963, disputerà la sua sesta Paralimpiade alla soglia dei cinquant’anni per tentare ancora una volta di battere i record personali. Questa volta, però, con una motivazione in più: essere portabandiera della nazionale italiana paralimpica a Londra. Riccardo Benotti, per il Sir, lo ha intervistato.

Cosa ha provato a portare il tricolore della spedizione azzurra?

“È stato un grandissimo onore e il coronamento di tutta la carriera. Sono grato al presidente del Cip, Luca Pancalli, e a tutta la giunta. Non dimenticherò mai quando mi hanno telefonato per comunicarmi la decisione. È stata un’emozione unica, che mi ha tolto le parole. Alla consegna della bandiera, con Valentina Vezzali e Giorgio Napolitano, ho provato una sensazione di condivisione profonda dei valori sportivi. Per me questa è una Paralimpiade speciale. Le altre volte pensavo soltanto a fare bene e ad ottenere il risultato. Quest’anno, invece, sarà un’esperienza diversa. Non si tratta soltanto di portare fisicamente la bandiera ma di rappresentare l’impegno che ogni atleta deve avvertire, tutti quei valori che ci sono sotto il tricolore che il portabandiera ha il dovere di tramandare ai nuovi che magari si affacceranno a Londra. È una bella responsabilità”.

Come è nata la passione per il tiro a segno e con l’arco?

“Ricordo il primo approccio come una ‘sport terapia’. Ho iniziato a praticare attività sportiva dopo l’incidente, prima ero dedito soltanto all’azienda agricola di famiglia. Spronato da un amico disabile che già aveva frequentato lo sport e ne conosceva i benefici, ho cominciato a provare diverse discipline. In quel periodo ero fresco d’incidente e non era facile accettarsi o uscire di casa, trent’anni fa era assai diverso rispetto ad oggi. Fin da subito mi sono reso conto che andando sui campi di tiro a segno, tiro con l’arco, tennis e atletica riuscivo a stare con le persone, relazionarmi con loro ed essere parte integrante della società. Dopo è nata una grande passione che in tutti questi anni, con molto sacrificio, ho coltivato e mi ha restituito tanto nella vita al di là dei risultati sportivi. Per me, lo sport è stato un maestro di vita. Inizialmente sono rimasto affascinato dal tiro a segno; a partire dal 1996, poi, ho cominciato a praticare il tiro con l’arco che mi ha sempre attirato perché era l’unica disciplina in cui non c’era distinzione tra atleti disabili e non, a valere erano soltanto i punti che si riuscivano a segnare sul bersaglio. Il passaggio all’arco non è stato così semplice ma si è rivelata una scommessa che mi ha gratificato negli anni. Confrontarsi alla pari con tutti, mostrare che nello sport non ci sono differenze, è quello che mi ha stimolato”.

Lei è impegnato anche nella promozione dello sport per le persone disabili…

“Tanto si è fatto ma tanto c’è ancora da fare. Quando ho iniziato eravamo all’alba del movimento paralimpico. In vent’anni è stato fatto un enorme passo avanti: se si guarda, ad esempio, all’assegnazione delle Olimpiadi 2016 ci si accorge che il Brasile se le è aggiudicate anche perché è stato presentato il miglior programma paralimpico. Questo indica che il movimento cresce bene, dimostrando al mondo intero che l’impegno, il sacrificio, la voglia di arrivare, la sconfitta e la vittoria sono elementi comuni a tutti gli atleti. Dobbiamo valutare la persona non per l’aspetto esteriore ma per le qualità che può proporre. È il messaggio fondamentale che il movimento paralimpico vuole dare, perché siamo parte integrante della società. Se il movimento è messo in condizione di esprimersi, può essere senz’altro una risorsa per la società”.

Atleta e non persona disabile?

“Quando la gente vedrà un atleta in una persona seduta in carrozzina sarà il più grande risultato che potremo ottenere. Mi auguro che, grazie al nostro contributo, le generazioni future potranno sperimentare questa realtà come normale. In tal senso è prezioso anche il lavoro dei media, che raccontano e mostrano le imprese degli atleti disabili. Qualche giorno fa, ad esempio, sono stato contattato dopo la messa in onda di un servizio televisivo: è un risultato bellissimo se si pensa che solo vent’anni fa non sarebbe mai accaduto. Entrando nelle case delle persone, possiamo fare la differenza”.

Quali obiettivi per Londra 2012?

“Non parto per arrivare sul podio ma, in realtà, la mia mente è lì. Arrivo da un brutto infortunio avuto lo scorso anno con il distacco di un tendine della spalla e la riabilitazione non mi consente ancora di essere al massimo della condizione. Non è stato facile prendere la decisione di farmi operare però mi rendo conto che stiamo sulla strada giusta. Arrivare a Londra non come il favorito, cosa che accadeva negli altri anni, mi lascia la mente più leggera e sono convinto che riuscirò a rendere meglio. Voglio proporre quello che so fare e mi impegnerò per fare questo. Poi vinca il migliore”.

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