Scuola / Il velo della discordia: dopo il caso di Udine vietare non è una mossa adeguata

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No al velo islamico a scuola? La domanda viene da un fatto di cronaca dei giorni scorsi, quando il dirigente di un Itis friulano, con una circolare spiegava, tra l’altro: “Essendo la scuola italiana laica e indifferente al credo professato dagli allievi e dalle loro famiglie non sarà accettata da nessuno l’ostentazione e l’esibizione, specialmente se imposta, dei segni esteriori della propria confessione religiosa perché essa, in fin dei conti, può essere colta come una provocazione e suscitare reazioni di ostracismo, disprezzo o rifiuto. Tale è, ad esempio il fazzoletto o velo che copre talvolta i capelli e parte del viso delle ragazze musulmane”. Il motivo? Prevenire atti di violenza, poiché nella scuola velo_scuolasi era verificata, proprio qualche giorno prima, un’aggressione da parte di un ragazzo friulano ai danni di un compagno egiziano. La preoccupazione del preside, dunque, era quella di “abbassare i toni”. Nella circolare il preside constata la diffusione di sentimenti ostili ai musulmani tra gli studenti e interviene per far fronte, dunque, a un’emergenza. Scrive anche: “Non esistono e non devono esistere guerre di religione a scuola. Le armi che dobbiamo utilizzare per prevenire questi patetici fenomeni sono la persuasione, la riflessione, il confronto, la testimonianza di chi nella vita ha patito soprusi e discriminazioni in nome della propria etnia, condizione, religione o ideologia”.
Il provvedimento ha fatto subito rumore, tra approvazioni e contestazioni, unite alla presa di distanza, immediata, delle autorità scolastiche regionali e delle Istituzioni. Al punto che, nel giro di breve tempo, il preside ha ritirato la circolare incriminata, spiegando che i fatti erano andati ben oltre le sue intenzioni. “Considerando il velo un segno di appartenenza confessionale – aggiunge il dirigente scolastico -, mi sono esposto al sospetto di volere conculcare la libertà di culto che la Costituzione proclama”.
Il fatto accaduto non può non fare riflettere sui temi della tolleranza a scuola, come su quelli dell’ostentazione dei segni religiosi. Tanto più che in altre nazioni europee esistono precise norme che vietano proprio questi segni – il velo islamico, ma anche i crocifissi – a scuola e in pubblico. Ora, relegare l’espressione religiosa nel privato, negandole una visibilità pubblica è fortemente problematico. Anzitutto perché proprio l’appartenenza religiosa e la manifestazione della fede ha a che fare con la vita “intera” delle persone, in ogni suo ambito. Questo non toglie che possano esserci necessità per cui lo Stato impone regole mirate. Si pensi, ad esempio, alla questione del velo integrale e alle esigenze legate al riconoscimento dell’identità. Ma si tratta di casi particolari.
In una scuola, poi, dove “non esistono o non devono esistere” guerre di religione, si capisce che le diversità, espresse anche con un velo – ma chi conosce scuola e giovani sa bene che i “segni di appartenenza”, che delimitano “territori” e identità sono molti di più e anche molto diversi -, dovrebbero poter essere risorsa e non ostacolo. Anzi, proprio la scuola è il luogo più adatto per ricomporle all’interno di sistemi di significato condivisi e comprensibili.
Quindi, vietare il velo non sembra una mossa adeguata. Piuttosto preoccupa fortemente la denuncia della crescita dell’intolleranza, fino alle aggressioni. Cosa che allarma giustamente il preside friulano. E qui le responsabilità vanno cercate anche – e forse soprattutto – fuori dalla scuola.

Alberto Campoleoni

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