Scuola / Una protesta per ogni stagione. La genericità suggerisce il ripetersi di una stanca ritualità

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Ci risiamo. Arriva l’autunno ed ecco le prime proteste studentesche. Questa volta – riferiscono i media – la chiamata 050515-011P (1)in piazza passa attraverso i social (naturalmente) e c’è anche l’hashtag d’ordinanza: #nobuonascuola. Insieme, l’immancabile striscione da titolo per i giornali: “Non chiediamo il futuro, ci prendiamo il presente”. Così la manifestazione per le vie di Roma, ma il copione si ripete in diverse strade d’Italia, talvolta con la variante di tensioni e scontri.
Riferiscono sempre i siti che gli studenti protestano anche contro “il Jobs Act e il Caro Vita”, contro il “modello Renzi” e poi naturalmente contro il caro libri e la situazione dei trasporti. Insomma, non solo la riforma della scuola, ma tutta una serie di rivendicazioni, le più disparate.
Viene da chiedersi: ma a chi serve una mobilitazione così? Appare del tutto evidente che la protesta per tutto diventa sterile. Così come non giova alla eventuale causa studentesca – gli studenti dovrebbero essere protagonisti della scuola, non va dimenticato, e con buona ragione possono/devono dire la loro, individuando anche questioni molto concrete e mirate, come è successo e succede – il pot pourri di rivendicazioni che vanno dalla riforma scolastica, appunto, fino alla questione immigrati (non sono mancati gli slogan).
Ecco, da spettatori, questa prima mobilitazione dell’anno (in scaletta ce ne sono altre) sembra particolarmente sterile e ingenua. Difficile cogliere un “punto di caduta” concreto, suggerimenti capaci di provocare in modo efficace. Piuttosto, la mobilitazione autunnale, suggerisce il ripetersi di una stanca ritualità, col retrogusto amaro che resta a chi scorge tante energie, entusiasmi e creatività – sono le caratteristiche dei ragazzi – rincorrere vanamente la polemica sul “preside sceriffo” o addirittura avvitarsi in quello slogan così figlio della contemporaneità: “Non chiediamo il futuro, ci prendiamo il presente”. Ma cosa vuol dire? Ci “accontentiamo”? Per ragazzi e ragazze – verrebbe da dire – il futuro è esattamente il minimo sindacale.
Sono provocazioni, naturalmente, che interpellano anzitutto gli educatori, i genitori, gli insegnanti, cui tocca prendere sul serio quello che agita i propri ragazzi. La voglia di protagonismo che spinge ad andare in piazza e insieme, la confusione che pure sembra manifestarsi. L’entusiasmo e la passione che muovono una generazione e i luoghi comuni contro cui talvolta si infrangono.
E qui si disegna, una volta di più, un compito di quella scuola che si vuole “buona” non solo per una riforma ancora in itinere. Buona perché capace di raccogliere ed elaborare i vissuti e promuovere riflessione, maturazione personale, capacità. Competenze, verrebbe da dire usando il gergo in uso. Una scuola capace di rispondere anche alla sfida ricorrente delle manifestazioni studentesche facendone materia di discussione, anche di analisi. In classe, perché no? È proprio a scuola, in fondo, dove meglio si può provare ad essere protagonisti, anche mettendo sotto la lente gli slogan e provando a distillarne ragioni e contenuti.
Potrebbe essere un modo diverso, ma interessante, di attraversare il solito, abituale, “autunno caldo”.

Alberto Campoleone

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