Classe media / I segnali dello sboom: dalla crisi dei centri commerciali ai pensionamenti

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Nel mondo occidentale è la celebre classe media a pagare il conto più salato della crisi economica: sta velocemente contraendosi. La “middle class” che ha fatto le fortune delle nostre economie nel corso del Dopoguerra, sta ora arrancando e perdendo peso economico e conseguente potere d’acquisto. E in crisi con lei stanno andando le strutture che ne avevano segnato l’ascesa: i centri commerciali. In Italia come negli Usa, i grandi “mall” sono in difficoltà. Negli Stati Uniti che la crisi l’hanno da tempo sorpassata, si registra un’impennata di chiusure dei centri commerciali. Gli stessi patiscono sofferenze pure in Italia: se la parte alimentare comunque resiste, seppur con molta fatica, quella “non food” – elettrodomestici, vestiti, mobili – è un pianto greco.classe media

Il perché è presto detto: chi ha pochi soldi a disposizione, si rivolge direttamente ai punti vendita dove il basso prezzo è tutto. E infatti sono proprio queste strutture a crescere di più nei volumi di vendita. Chi i soldi li ha, preferisce invece affidarsi al negozio, al venditore di fiducia, all’acquisto “on line”. Si riduce appunto il numero di chi prediligeva il centro commerciale quale luogo di abbondante offerta di beni di buona qualità a prezzi abbordabili.

Il fatto che il fenomeno sia esteso un po’ ovunque segnala appunto come la crisi abbia divaricato quella forbice sociale che la seconda parte del Novecento aveva progressivamente chiuso. Aumentano i poveri, aumentano i ricchi, diminuiscono i benestanti.

È proprio la classe media a pagare il conto più salato alla crescita della disoccupazione: uno stipendio in meno in famiglia trasforma una relativa agiatezza in una problematica gestione delle risorse rimaste. È la classe media a subire i contraccolpi degli inasprimenti fiscali che ovunque, più o meno mascherati, la tartassano. Chi è ricco, sa come sfuggire alle maglie del Fisco.

È sempre la classe media a patire il progressivo restringimento delle politiche di welfare: la pensione si allontana e si riduce, il Tfr è preso d’assalto, le agevolazioni cadono una ad una, la sanità e l’istruzione costano di più, e via andare.

Il trend era già noto a chi produce beni di consumo. Questi ultimi anni sono stati un vero boom per i prodotti a bassissimo costo – possibilmente “made in China” e dintorni – e per gli oggetti di lusso, che macinano record su record. O utilitarie coreane e rumene, o Suv; o scarpe di similpelle, o gioiellini col tacco: a soffrire sono quei prodotti di media qualità che stanno vedendo assottigliarsi i loro acquirenti.

D’altronde non solo la perdita del lavoro incide sui portafogli: pure le dinamiche contrattuali di chi un lavoro ce l’ha, sono ferme come minimo a cinque-sei anni fa. Gli stipendi (e pure le pensioni) non crescono, la pur scarsa inflazione pian piano ne ha eroso il potere d’acquisto.

È per questo che le politiche governative mirano ad accrescere il netto in busta paga, soprattutto per i redditi medio-bassi. L’idea era quella di dare fiato ai consumi; non è stato così perché quelle decine di euro mensili rimaste negli stipendi hanno semplicemente puntellato una situazione sempre più difficile. Ma urgono – qui come altrove – misure più radicali per sostenere la classe media. Perché questa è, letteralmente, il maggior collante di una democrazia modernamente intesa. Il nostro sistema sociale poggia sulle sue spalle: non facciamole collassare.

Nicola Salvagnin

 

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