Intervista / Don Vittorio Rocca sulla legge del fine vita: “Aiuto nel morire, non per morire”

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Su molte questioni riguardanti il fine vita un grande dibattito si è acceso negli ultimi mesi, culminato lo scorso 14 dicembre nell’approvazione al Senato del disegno di legge in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento. Ne parliamo con don Vittorio Rocca, docente di Teologia morale presso lo Studio Teologico San Paolo di Catania.

Quale atteggiamento deve assumere la Teologia della Chiesa dinanzi alle tante voci che permeano il dibattito? Essa è una voce tra le tante o pretende di essere qualcosa di più?
Credo che la Chiesa – anche attraverso la sua riflessione teologica – possa offrire a questo dibattito un supplemento di saggezza, davanti alla morte intesa come la soglia collocata fra due vite: quella che tutti conosciamo e quella che nessuno conosce (e che per noi cristiani è rischiarata solo dal mistero di Gesù Risorto). La teologia, che è la fede che cerca di capire, fornisce un riferimento essenziale nel marasma intellettuale e civile di questo tempo. Davanti alla modernità e soprattutto alla modernità tecnologica che chiamiamo post-modernità, essa non propone una sterile mitragliata di condanne, ma la convinzione che ciò che sembra minacciare la dottrina della Chiesa può essere un’occasione per il Vangelo. Non dunque il ricorso a un meccanicismo morale o moralistico, ma la sapientia cordis che sa che anche le dimensioni etiche devono essere misurate sapendo che dietro ogni parola c’è il mistero dell’esistenza.
Qual è la differenza tra eutanasia e accanimento terapeutico? Spesso il limite tra le due tra le due cose non è così chiaro. Come riconoscerlo?
Si tratta di una vexata quæstio. Sul tema del fine-vita il magistero si è espresso chiaramente. Da Pio XII al Catechismo della Chiesa Cattolica. Basta aprire il testo del nuovo Commento teologico-pastorale al Catechismo per trovare queste parole: «Dall’eutanasia va distinta la rinuncia all’accanimento terapeutico: la decisione di interrompere “procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate”, infatti, può essere perfettamente legittima. Infatti, “non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire” (CCC 2278). Rispetto alle cure da offrire al malato, il n. 2279 precisa: vanno sempre garantite le cure ordinarie; gli analgesici utilizzati per alleviare le sofferenze del paziente sono leciti anche se vi sia il rischio di abbreviare la vita (principio del duplice effetto); le cure palliative, che “costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata”, sono da incoraggiare». Si tratta di trovare le vie per facilitare al morente l’incontro e l’accettazione della morte, non di collaborare alla sua realizzazione, di fornire un accompagnamento e un aiuto nel morire, non un aiuto per morire.
Il principio di “proporzionalità al bene integrale della persona” come indice di moralità viene affermato dal Catechismo della Chiesa Cattolica ed è stato ribadito anche dal Papa. Come concretizzarlo nei contesti drammatici di cui parliamo senza cadere nell’etica della situazione?
Queste considerazioni si iscrivono all’interno di una precisa visione etica il cui «imperativo categorico» è il non abbandono del malato e il cui «comandamento supremo» è «la prossimità responsabile». Dinanzi alla tendenza a ridurre il “fine-vita” a una serie di decisioni tecniche, è necessario rivendicare fortemente il carattere etico della questione. La sfida vera non si gioca tanto sul livello giuridico-normativo, ma su quello etico e antropologico.Delle persone dobbiamo sempre prenderci cura, fino all’ultimo atto della vita, quando saremmo tentati di sottrarci alla relazione. Una tale cura va esercitata proprio verso i più deboli, verso le persone più fragili, dal momento che proprio dal sentirsi abbandonati scaturiscono spesso le richieste di porre fine alla propria esistenza.
Quale sensibilità e quali mezzi dovrebbero porre in gioco le nostre Comunità cristiane per sovvenire ai bisogni di tali persone in difficoltà?
Innanzitutto occorre affermare che l’etica cristiana non dà alcuna spiegazione al problema del male, della malattia e della morte. Ciò che sappiamo è che non siamo interamente padroni della nostra vita e del nostro destino, a cominciare dalle condizioni della nostra nascita: l’esistenza di ciascuno di noi dipende dalla famiglia, dalle condizioni di vita, di educazione, di cultura, di solidarietà sociale, di storia, ecc. Il cristianesimo chiede una sola cosa a chi è nella malattia: che, attraversando la malattia, continui ad amare gli altri e ad accettare di essere amato, perché neppure questo è facile. La sofferenza non è gradita a Dio, altrimenti egli sarebbe sadico, e purtroppo di immagini perverse ne ha ricevute molte, attraverso le proiezioni dei cristiani e della Chiesa su di lui!
Quando parliamo di fine vita inevitabilmente entra in gioco l’esigenza di creare un apparato normativo civile che tuteli le parti in causa. Si ritiene soddisfatto del disegno di legge approvato lo scorso 14 dicembre?
Penso anzitutto che c’era l’esigenza di un intervento normativo. La nuova legge sul fine vita non va né esaltata, né a maggior ragione criminalizzata. Va riconosciuta per quello che è e che doveva essere: un necessario passo in avanti per adeguare la giustizia in sanità alla realtà (e non alle illusioni) del nostro tempo. Purtroppo però l’impressione è che essa sia nata male, in quanto frutto di un complesso travaglio e di un voto finale segnato dalla chiarezza di una vasta maggioranza parlamentare, ma senza la chiarezza normativa necessaria a scongiurare forzature e con un potenziale dirompente in grado di generare abbandoni terapeutici e forse persino incapace di evitare derive verso quell’eutanasia. Sono senz’altro d’accordo nello stigmatizzare i limiti della legislazione attuale, soprattutto per quanto riguarda la definizione e il trattamento dell’accanimento terapeutico. È dunque auspicabile un miglioramento delle norme giuridiche non solo a favore dei medici, ma soprattutto dei malati.

 L’approvazione della legge ha un retroterra, quello dell’idea che la qualità della vita sia il vero valore da perseguire e che la sua valutazione dipenda unicamente dalla volontà del singolo. Se questo fosse l’indice principale la legge potrebbe aprirsi in futuro anche all’approvazione dell’eutanasia. Cosa ne pensa?
La legge sul biotestamento introduce un’idea sbagliata di libertà che stravolge la tradizione culturale e la compagine sociale del nostro paese. Dal punto di vista filosofico, la legge si basa su un solo presupposto culturale: la libertà coincide con la possibilità dell’autodeterminazione. Da questo punto di vista l’introduzione del testamento di vita va senz’altro incoraggiata. Ma occorre guardarsi da una interpretazione troppo rigida di tale principio, che fa di esso il criterio esclusivo di valutazione dei comportamenti in campo sanitario. La tendenza ad esasperare il principio di autodeterminazione è frutto di un’antropologia individualista, che non tiene in alcun conto la dimensione sociale dei problemi e perciò l’esigenza di affrontarli (e di risolverli) in una prospettiva di un’autentica solidarietà. Va detto quindi che il giudizio etico sull’eutanasia non può che essere negativo. Il principio di autonomia è irrinunciabile, ma relativo — anzi relazionale — e non assoluto. Quelle della Chiesa non sono scelte oscurantiste, perché la Chiesa se dice dei “no” è perché ha dei “sì” più grandi. Non è una risposta esclusivamente negativa, ma è per qualcosa di più, una pienezza maggiore di vita e di gioia. La Chiesa dice questo, perché ha il Vangelo da annunciare, e il Vangelo ha sempre buone notizie per tutti.

 

Francesco Pio Leonardi

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