Intervista / Giuseppe Marino, alias Alosha, il “danzastorie” filosofo

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Abbiamo avuto il piacere di incontrare per un’intervista Giuseppe Marino o, come tutti lo chiamano, Alosha. E’ un mimo, lui ama definirsi un “danzastorie” che con i suoi gesti, apparentemente semplici ma studiati, interpreta tradizioni, sentimenti, suoni e realtà. Dietro il danzatore, però, si cela un filosofo.
Alosha come nasce questo tuo modo di danzare?
Tutto il mio fare nasce dall’amore verso la mia terra, da questa spinta emozionale che mi porta alla ricerca di nuovi linguaggi. E’ proprio in questo bisogno di esternare che ognuno adotta il proprio linguaggio che può essere poetico, pittorico, musicale: io danzo. Ho alle spalle un percorso di studio coreutico che mi ha permesso di esprimermi con il corpo sia come insegnante con chi vuole imparare che come artista verso il pubblico.
Per molti anni ho studiato e lavorato fuori dalla Sicilia. Tredici anni fa, alla nascita di mia figlia, ho deciso che doveva vedere la luce nella nostra terra e da allora risiedo qui.

E come nasce il tuo metodo che si basa, prevalentemente, sulla gestualità?
Per me il gesto rappresenta l’esaltazione della parola, anche se, per noi siciliani, il gesto, la mimica facciale, rappresentano un linguaggio unico al mondo. Naturalmente c’è stata e c’è ancora da fare una lunga ricerca.

Hai sempre danzato?

All’inizio ero un insegnante di educazione fisica a scuola, poi la mia passione ha preso il sopravvento e ne ho fatto il mio scopo di vita. Il forte sentimento verso la mia terra mi ha portato a scandagliare le nostre origini e a studiare tutto quello che ci è stato trasmesso nei secoli, sia dal punto di vista linguistico, che artistico, letterario e, soprattutto, religioso, anche da quelli che ci hanno conquistati senza mai sottomettere la nostra cultura e la tradizione religiosa, anche se abbiamo preso a piene mani i miti greci: Colapesce, Aretusa, Aci e Galatea…

Cosa ami della nostra sicilianità?
Amo soprattutto il popolo che, caloroso, scende in piazza, da sempre le feste popolari, quelle che ci caratterizzano, vedono il popolo esultante. Poi parte importante per me sono i poeti popolari che hanno contribuito ad una crescita civica anche se spesso hanno messo in evidenza le magagne del potere e quindi hanno dato fastidio.

Il personaggio che ami di più?
Sicuramente Ignazio Buttitta, colui che amava definirsi il poeta popolare, di Bagheria e che trova sempre ampio spazio nei miei spettacoli. Lui con una semplice frase esprimeva il vero significato dell’essere siciliano: “l’uomo aviri u cori comun a chiazza e a menti comu lu cielu” dove la piazza indica l’accoglienza e il cielo l’apertura mentale. Lui portava la cultura dove non c’era o non c’erano i mezzi per poterla realizzare, quindi girava per piazze e borghi, anche quei luoghi intrecciati con la mafia, e portava la sua poesia al popolo siciliano che si è sempre ribellato all’ingiustizia, a Garibaldi, all’unità d’Italia che abbiamo subito.

Secondo te, qual è la caratteristica della nostra isola?
Contrariamente a ciò che si afferma di solito, con film o affermazioni che storpiano la nostra natura, la Sicilia è “fimmina”, questa è una bella caratteristica. Tutti sappiamo la forza che solo una donna o madre può avere sulla società, anche il vulcano Etna per noi è “Fimmina”, a Muntagna! Io nei miei spettacoli, con i Cunti, i canti popolari che di generazione in generazione hanno tramandato la verità storica del momento, lo metto in evidenza. L’antico Cuntu cercava ti trasmettere e tramandare la storia. Io cerco di perpetrare questa tradizione perchè ha in se una forza ritmica ( il battere ) che lasciava e lascia nella mente una forte traccia oltre la scrittura.

Il personaggio acese che ami?
Sono, da sempre, affascinato da Lionardo Vigo, un acese che è stato sempre presentato sotto un aspetto solamente intellettuale ma che avrebbe bisogno di una contestualizzazione più vicina al popolo visto che lui ha reso viva una pietra, la pietra su cui sorge questa città che si affaccia verso l’oriente ed è baciata dal sole e dal mare. I suoi versi, secondo me, dovrebbero essere avvicinati a tutti gli acesi. Alla sua “Raccolta di canti popolari siciliani”, opera che si trova presso la biblioteca Zelantea, attingono tanti cantautori provenienti da diverse parti della Sicilia per testi popolari che poi esportano in tutto il mondo dove si sente l’anima del nostro popolo. Oppure scaricano il pdf prodotto in Inghilterra, ad Oxford. Da acese sono orgoglioso di questo tesoro e penso debba essere portato al popolo.

Perché la gente ti riconosce con il nome Alosha?
Alosha è un nome che proviene dall’antica lingua indoeuropea Sanscrito e vuol dire “cuore divino”. Questo nome mi è stato dato dal mio maestro spirituale, Michael Barnett, tanto tempo fa e mi è rimasto come nome di danzatore.

Come vivi da artista questo periodo post covid?
Questo, per l’artista, è un momento critico e umiliante perché ad ora, l’arte e tutti coloro che per una vita si sono spesi per portarla avanti, non sono assolutamente tutelati. Questo mi rattrista perché, oltre al mio dramma personale o di quello di tutti gli altri artisti di qualunque genere, vedo vanificare tutti i messaggi che nel tempo ho dato soprattutto alle fasce giovanili e cioè incoraggiarli ad esprimere quello che avevano dentro: in questo momento vedo vani i miei pensieri.

Cosa ha portato la danza a rendere Alosha un uomo dal pensiero profondo?
La curiosità di scoprire e capire qualsiasi cosa ci circonda, dalle cose più eccelse a quelle che riteniamo più umili. La vita deve essere ascolto e ascolto umile. Io mi interesso della vita e non solo di quello che faccio.

Impegni futuri?
Porto ancora in giro “Il danzatore di Sicilia” che sottolinea tutta la storia letteraria della nostra terra.  Inizio con Sciascia, Bufalino e Buttitta. In scena tre sedie, di colore diverso, per rappresentare i tre grandi autori siciliani. Grande protagonista l’aspetto religioso, parte integrante della sicilianità. Altro lavoro, che in questo momento che continuo a portare in scena, è “’Nzichitanza , titolo che frettolosamente, in italiano, possiamo tradurre con “continuamente” ma che io adoro per il ritmo che produce sia come fonetica che come pensiero.
Sto lavorando per mettere in scena uno spettacolo su Lionardo Vigo dal titolo “Pietra violata” perché Acireale con la sua pietra si incastra in un contesto nero mentre le altre città siciliane si caratterizzano per il bianco abbacinante degli stucchi in pietra arenaria. Secondo me, Acireale, negli ultimi anni, ha subito la violenza dell’ignoranza per la non consapevolezza della pietra a cui noi siamo legati e che invece dovrebbe essere esaltata organizzando un viaggio nel centro storico con lo sguardo all’insù per ammirare la bellezza del barocco che spesse volte è in mano all’incuria e alla decadenza: basterebbe, anche, illuminare ogni balcone per evidenziarlo e indurre al rispetto chi guarda.

Mariella Di Mauro

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