Sport / Il “calcio moderno” e il “riduzionismo”

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Le volte che si è letto del “calcio moderno”, sono tante quante potrebbero essere le varie ere storiche. Ma per fare un ragionamento di questo genere bisogna inevitabilmente (e probabilmente arbitrariamente) catalogare i vari periodi secondo alcune caratteristiche salienti: il catenaccio, il calcio totale, la zona totale, il tiki-taka, fluid football, ecc. A guardare bene queste etichette, la riflessione del pensare per compartimenti stagni sorge spontanea e, sicuramente, fa perdere legami tra le varie epoche e stili di calcio. Il riduzionismo è insito nell’uomo così quanto l’etichettare (o catalogare) la realtà, le persone, i luoghi e le situazioni. La necessità di ordine riduce le ambiguità, consente una maggiore facilità ed agilità di accesso ai contenuti e consente di installare riferimenti stabili e sicuri. Ma la realtà, in questo caso calcistica, è così semplice?

Il calcio moderno come gioco complesso

Quando si parla si complessità molte volte si fa confusione con difficoltà. Certo, un sistema complesso può essere più difficile di una situazione semplice. Per questo molti allenatori preferiscono semplificare le esercitazioni pensando così di poter aiutare i propri ragazzi nell’apprendimento.

L’insegnamento

Secondo l’approccio riduzionista, l’allenamento (così come la partita) è scomponibile in parti più semplici. Allenabile così nelle sue singole specifiche e secondo una progressività, e ricostruibile rimettendone insieme i pezzi. Si è sempre fatto così, tradizionalmente.

«Il problema nel calcio è che si impara a giocare nel modo sbagliato, al contrario: prima l’esecuzione, poi la scelta e solo per ultima la percezione». A. Wenger

Il grande manager francese aveva anni fa compreso che, non solo il riduzionismo facesse impostare metodologie poco in linea con la realtà gara, ma come lo stesso approccio portasse ad alcuni fraintendimenti. Quali per esempio l’eterna disputa tra il dare più importanza alla tecnica o alla tattica. Se negli sport di ripetizione (per esempio il tiro con l’arco) la tecnica è data dall’insieme di abilità specifiche per appunto mettere in pratica… la tecnica. Nel calcio la tecnica è l’esecuzione di una decisione. Ecco che già decontestualizzare la tecnica rispetto alla sua finalità, per quanto possa migliorare il singolo gesto, risulti riduttivo ed asettico.

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Il calcio moderno al giorno d’oggi

La caratteristica del calcio moderno è la complessità. E dal punto di vista diacronico (ovvero nel tempo) questa tendenza va verso la maggiore complessità. Ed allora è possibile riferirsi al gioco del calcio come un sistema complesso, composto da più parti intrinsecamente intrecciate con altre. Le quali non sono, come si è portati a credere, la somma delle singole parti ma più della loro somma. In un sistema complesso la scomposizione in parti più semplici fa perdere il contesto, l’ecologia del tutto, che siano aspetti tecnico-tattici, atletici o emozionali. Se lo scopo di qualunque attività formativa è quella di equipaggiare i learners con conoscenza ed abilità che siano durabili e flessibili, quella dell’allenamento è finalizzato al miglioramento della performance.

Ecco che già si mette in evidenza una discrasia spesso poco conosciuta: nel calcio (ma anche in altri ambiti) il miglioramento della performance non è sinonimo di apprendimento. Ci sono parecchie evidenze scientifiche che dimostrano come possa esserci apprendimento anche in assenza di miglioramenti nella performance. E al contrario che sostanziali cambiamenti nella performance spesso falliscono a tradursi in corrispondenti cambiamenti nell’apprendimento. La controintuitiva natura del rapporto tra performance e apprendimento mostra, per esempio, un effetto abbastanza consolidato: il massimo dell’apprendimento si ha da una prestazione con maggiori errori.

Spacing effect

La scoperta del cosiddetto spacing effect, ovvero che lo studio dilazionato e intervallato, rispetto a quello massivo, porti ad una resistenza maggiore all’oblio. Lo studio massivo, in compenso, ha il vantaggio di migliorare la performance nel breve. Pertanto, chi volesse imparare una nuova abilità che duri nel tempo e che sia trasferibile ad altri contesti, dovrebbe considerare di implementare un programma di apprendimento che sia distribuito nel tempo, anche se questo porta nel breve a maggiori errori.

Nello sport, per esempio, il giocatore di basket che volesse incrementare la sua abilità nel tiro libero dovrebbe farlo anche tirando da posizioni vicine al tiro libero. Questo porta al principio ad una maggiore percentuale di errore, ma ad un maggiore apprendimento a lungo termine. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che l’individuo riesca così ad imparare a variare gli schemi motori e riconoscere quelli adatti, in questo caso, al tiro libero (Schmidt, 1975).

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Apprendimento e performance 

Quando si vuole insegnare una nuova abilità ad un novello, si cerca sempre di guidarlo nell’acquisizione. Questo porta sicuramente ad una maggiore performance nel breve, ovvero fin quando la guida rimane attiva. Ma perde la sua efficacia nel momento in cui l’insegnante non funge più da guida. Cosi, provare nuovi schemi motori senza una guida può portare ad una bassa performance iniziale, ma ad una ritenzione e durabilità maggiore (Hodges e Campagnaro, 2012).

I discenti (o anche coloro che insegnano) interpretano erroneamente la performance a breve termine come un fattore affidabile su cui basarsi per predire l’apprendimento a lungo termine. Questo è quello che viene chiamato bias della stabilità: la performance di ora rimane costante nel tempo. Cosa purtroppo non vera. Nello sport Schmidt (1975) ha dimostrato come l’iterazione di singoli schemi motori variabili porti all’apprendimento a lungo termine e alla possibilità di trasferibilità di questi singoli schemi specifici. Nello specifico abilità che sono relazionate, ma diverse dall’abilità obiettivo che si vuole imparare, aumentano l’apprendimento a lungo termine. Questo perché sintetizza uno degli schemi motori generali sottolineandone un’abilità.

Nell’insegnamento, per quanto detto sarebbe necessario variare il più possibile i movimenti e le situazioni, in maniera da poter così continuamente far riconsiderare il contesto e riaggiustare l’abilità. Questo, come detto, porta ad una maggiore percentuale di errori (performance), ma ad un maggiore apprendimento a lungo termine. Chiaramente si pone il problema psicologico del non riuscire. Bisogna, quindi, identificare quando modificare i segnali e quando no.

Il calcio moderno / L’11 contro 0

Per quanto detto, la famosa esercitazione divenuta popolare in Italia orientativamente da Sacchi in poi per cui la squadra provi determinati movimenti prestabiliti senza opposizione di avversari (chiamata appunto 11 contro 0) sarebbe tendenzialmente inutile. La ricerca del meccanismo automatizzato non è funzionale alla percezione della realtà. Inoltre la minore frequenza di errori ricercata, intesa come sinonimo di apprendimento, è in realtà solamente un miglioramento nella performance. Purtroppo una performance slegata dalla complessità e, di nuovo, abbastanza inutile.

Salvo Pappalardo Coach Calcio La Voce dello Sport

Salvo Pappalardo*

*Allenatore Uefa B, laureato in Economia aziendale e specialista in formazione, con esperienza in squadre afferenti alla FIGC. 

La Voce dello Sport

Opere citate

Schmidt, R. A. (1975). A schema theory of discrete motor skill learning. Psychological Review, 82, 225–260.

Hodges, N. J., & Campagnaro, P. (2012). Physical guidance research: Assisting principles and supporting evidence. In N. J. Hodges & A. M. Williams (Eds.), Skill acquisition in sport: Research, theory and practice (2nd ed., pp. 150–169). London, England: Routledge.

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