Ai bordi della cronaca / E dopo sessant’anni? Il nuovo anno segnerà il tramonto o una nuova alba del “sogno” europeo?

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“E così è da attendere che i ceti più depressi siano sollevati, le parti sociali viste nella loro dignità, la cultura diffusa, la gioventù valorizzata in un libero movimento e contatto, al di là degli antichi confini, una cittadinanza europea, sia pure per una graduale attuazione, riconosciuta (…)”.
Così Aldo Moro nel 1972 esprimeva la sua attesa europea pensando alla prospettiva dell’unione economica e monetaria che in quegli anni stava prendendo forma nel segno di una politica comune europea che non si limitasse a potenziare la ricchezza dov’era ma sapesse equilibrare le condizioni socio-economiche dei popoli europei.
L’obiettivo è stato raggiunto solo in parte e nel fiume di notizie che, anche in questi giorni, su tutti i media puntano il dito sulla fragilità dell’Unione europea, nello scenario interno e in quello internazionale, il pensiero di Moro appare tra i più centrati per dare senso e prospettiva al 60° anniversario dei Trattati di Roma che si celebrerà a partire dal prossimo 25 marzo.
L’attesa di Moro, di cui lo scorso anno si è celebrato il 100° della nascita, corrispondeva al “sogno” dei padri della comunità europea e se nel tempo la risposta è rimasta in buona misura incompiuta non è stato per il guardare più in alto e più lontano di alcuni uomini ma per la debolezza di una politica comune europea che non è stata all’altezza di una sfida.
Ma solo la politica è mancata all’appuntamento con la storia? Si può puntare il dito accusatore solo contro la politica e l’iniziativa istituzionale? Non è forse mancata la cultura? Non sono forse mancati gli uomini di pensiero, non sono forse mancati gli educatori alla convivialità delle differenze europee? Non è forse mancato chi sapesse spingere lo sguardo e non solo il mercato oltre le frontiere? E non è che tutte queste assenze abbiamo determinato l’impoverimento del pensare e dell’agire politico?
Bisogna pur ammetterlo: non sono molti gli intellettuali che nei diversi Paesi europei hanno saputo e sanno offrire, oltre a quella nazionale, una narrazione dialogica europea. In altre parole: non esiste ancora una sociologia che abbia seriamente preso in osservazione il fenomeno sociale comunitario oltre a quelli dei singoli Paesi europei; non ci sono studi sistematici sulla mutazione della famiglia che in Europa diventa sempre più un abbraccio tra culture europee diverse; non si offrono ai giovani di Erasmus occasioni perché le loro esperienze possano rendere più fecondo il terreno culturale e politico europeo; non si riesce a dare alla mobilità giovanile nella casa comune europea altra definizione che quella di fuga di cervelli mentre è anche ben altro; non si supera il timore che il diritto europeo possa provocare un deficit di democrazia nel singoli Paesi; non sono molti gli storici che si dedicano a un ricerca autenticamente comunitaria e non solo riferita ai rapporti tra Ue e singoli Paesi; non sono molti i giornalisti che chiedono agli europarlamentari dei rispettivi Paesi quali risultati abbiano raggiunto per la crescita dell’Unione europea e non solo per il raggiungimento degli interessi dei loro elettori; non sono molti neppure i cittadini europei che pongono la stessa domanda a chi li rappresenta nell’Europarlamento…
L’elenco potrebbe continuare non certo per incrementare la sterilità del pessimismo ma per dire che sessant’anni pongono la casa comune europea in bilico tra il tramonto e una nuova alba.
In bilico tra la fine e il ricominciamento.
Fare della memoria dei sessant’anni dei Trattati di Roma un esercizio di futuro è possibile solo se si coglie l’appello al risveglio della coscienza europea che non è solo la coscienza di Bruxelles.
Occorre trasformare l’appello in impegno prima che sia troppo tardi, prima che la forza dialettica degli egoismi e delle paure, con la quale è comunque importante misurarsi, abbia il sopravvento sul significato di essere europei, sulla responsabilità storica dell’Europa.
Non si aspettino solo segnali da Bruxelles, magari per contestarli, ma ci si affretti a mandare segnali a Bruxelles perché nessuno può stare a lungo in bilico.

Paolo Bustaffa

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