Economia / Distretti industriali da record: Italia (sei) e Germania (quattro) nei primi dieci d’Europa

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La Pedemontana, cuore industriale d’Europa. Per Pedemontana s’intende quella fascia di Nord Italia posizionata tra Alpi e pianura Padana: ebbene, uno studio di Fondazione Edison e Confìndustria Bergamo sulle province europee a maggiore vocazione manifatturiera, rivela che il Lombardo-Veneto non ha rivali. Nemmeno la Germania.

Al primo posto infatti c’è la provincia di Brescia, al secondo quella di Bergamo: qui stanno due distretti industriali capaci di generare insieme distretti industrialiquasi 20 miliardi di euro di valore aggiunto: nessun’altra provincia europea fa tanto, nemmeno quella Wolfsburg che sta al terzo posto e che ospita un colosso come la Volkswagen. Al quarto posto c’è Vicenza, al sesto Monza, al settimo e ottavo Treviso e Modena. Un dominio: sei province nei primi dieci posti, le altre quattro sono tedesche. Estendendo la ricerca ai primi venti posti, compaiono pure Varese (11ª), Reggio Emilia (16ª) e Mantova (19ª). Italia e Germania si spartiscono tutto, salvo una provincia polacca al 17° posto.

A guardare la dislocazione geografica, emerge che il cuore produttivo europeo ad alta specializzazione (e quindi ad alto valore aggiunto) si colloca tra il sud della Germania e il Nord Italia. Da noi, la fa da padrona la metalmeccanica, seguita dalla chimica, dai prodotti per la casa e dalla gomma-plastica. Ma c’è una differenza enorme tra noi e i tedeschi: loro hanno giganteschi konzern industriali che trainano le economie locali. I giganti automobilistici (Bmw, Daimler, Audi…), elettronici, farmaceutici, chimici. Noi no. Tante buone aziende, ma di dimensioni non paragonabili ai colossi tedeschi.

Quindi è di tutta evidenza che molte aziende operanti (e bene) in suolo italico, siano fornitrici delle multinazionali tedesche: qui si lavora tanto, bene e a costi più bassi, ad appena 500 km dai distretti industriali d’oltralpe.

Non siamo però un coacervo di fabbriche-cacciavite, tipo il distretto industriale romeno di Timisoara dove si produce per centinaia di aziende italiane. Molto spesso facciamo prodotti innovativi, forniamo ai “grandi” soluzioni migliori; ma anche vendiamo per conto nostro i migliori rubinetti, piastrelle, tessuti tecnici, acciai fini, componenti plastici del mondo.

Le nostre fabbriche però hanno in media cento-duecento addetti, sono flessibili per natura e senza aspettare leggi e riforme; gli addetti affinano da secoli la capacità italiana di lavorare bene; gli imprenditori sanno districarsi nella selva dei regolamenti e delle imposte italiane, quindi non hanno paura di nulla quando girano per il mondo: cos’è la giungla cambogiana, rispetto ad un criptico Decreto Semplificazioni?

Rimangono due criticità enormi: non abbiamo (più) grandi aziende a farci da traino, né italiane né straniere trapiantate qui. In un mondo sempre più “piccolo”, le dimensioni contano eccome: si vedano le difficoltà della grande distribuzione tricolore a creare un solo supermercato fuori dai confini nazionali, mentre i colossi stranieri hanno davanti a sé vaste e inesplorate praterie in Cina e India. E, con quelle strutture, trainano i “loro” prodotti.

La seconda balza agli occhi guardando queste classifiche: c’è un’Italia manifatturiera (il Nord), una dei servizi e del turismo (il Centro). La terza – la mezza Italia rimasta – non pervenuta. Passano gli anni e i segnali di vita si fanno sempre più deboli. Con rammarico e con molta rabbia: possibile che si vada ad investire e produrre in Serbia, in Albania, perfino in Lituania piuttosto che in Puglia o Campania?

Nicola Salvagnin

 

 

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