Editoriale / Domenica in famiglia, un diritto di tutti i lavoratori

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Se qualcosa, questa straordinaria quarantena causata dal Covid-19, ha riportato al centro, questa è stata la ritrovata condivisione degli spazi domestici dei nuclei familiari. Le convivenze, più o meno forzate, hanno restituito per forza di cose tempo e luoghi a quelle dimensioni di relazione familiare che la routine, l’abitudine e soprattutto certi ritmi di lavoro avevano quasi cancellato. Per fare un esempio, nel periodo surreale segnato dal lockdown, molti genitori hanno potuto probabilmente vivere come mai prima con continuità il tempo necessario della relazione con i figli. 

Un diritto-dovere genitoriale, ma anche un aspetto vitale tanto per la coppia quanto per la persona individuale stessa che, a causa dei ritmi imposti dal mercato e quindi dalle persone stesse che ne decidono le sorti, anche il nostro paese sembrava in buona parte avere accantonato. Persino il Padreterno, per chi ha il dono della fede e della conseguente lettura delle sacre scritture, “si riposò il settimo giorno”, come leggiamo dal libro della Genesi. Ma senza scomodare richiami biblici, è bene ricordare come sia la nostra Costituzione, all’articolo 36, a garantire come “il lavoratore abbia diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.

Quanto, esattamente, il nostro paese ha intenzione di perdere ancora la sfida educativa della cura dei figli e la necessità di una sana vita sociale? Quanto, a tollerare bassi salari e clima da caserma nei luoghi di lavoro del commercio? Sono domande che ogni lavoratore, sia a capo o no di un gruppo di lavoro, o sia privatamente impegnato nella sua attività professionale, ha il diritto-dovere di porsi. Il punto è allora molto semplice: sebbene da una parte sarebbe un eccesso ingiusto imporre per legge la chiusura a chi chiede di potere lavorare e tenere aperta la propria attività, soprattutto in momenti di crisi come quello imposto dal Covid-19, dall’altra la Domenica in famiglia è un diritto che ogni lavoratore deve potere rivendicare, almeno per la maggior parte delle settimane di lavoro annuale. In termini di umanità, genitorialità, socialità, educazione e diritti, i riposi domenicali possono e devono tornare abitudine di filiere produttive e della stessa cittadinanza, che è poi l’effettivo motore del circuito domanda-offerta che muove i mercati, locali come internazionali.

Vale la pena non potere vedere mai crescere in giornata i propri figli? Vale la pena assecondare ritmi disumani senza neanche un giorno di riposo deputato a rasserenare spirito, mente e corpo? Ogni consumatore esprime sempre una scelta e un “voto” con il proprio portafoglio: è possibile allora “votare” con i nostri acquisti in modo che un panettiere o un macellaio, ad esempio, possano riposarsi la domenica? Basterebbe provvedere in settimana o al sabato ai nostri acquisti necessari: non sarebbe affatto una tragedia. Ogni qual volta scegliamo cosa acquistare, dove farlo e con quale qualità o provenienza, esprimiamo infatti un “voto” rispetto al mercato, ai suoi tempi e ai suoi spazi.

Certo, una pasticceria o un supermercato potrebbero avere necessità di aprire anche domenica (magari assicurando una turnazione ai dipendenti nelle varie settimane), ma teniamo presente che  varcare l’ingresso ad esempio di un centro commerciale nelle giornate di domenica significa assecondare quell’apertura e quei turni domenicali per chi vi lavora. Ribadiamo che nessuno può imporre nulla, certo, di fronte al sacro diritto al lavoro, base dell’intera Costituzione italiana. Ma pensare che anche gli esercenti, i professionisti e i lavoratori tutti abbiano diritto al risposo potrebbe forse farci rivedere quel modo di acquistare e rispettare i tempi dell’uomo che abbiamo colpevolmente dimenticato o “sacrificato” a supposte “leggi dell’economia” scritte spesso da pochi uomini per manovrarne molti in nome di un unico, solo, immancabile dio, chiamato denaro.

Mario Agostino

Direttore ufficio per la pastorale della cultura – Diocesi di Acireale

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