In missione con i Camilliani / Essere minoranza. Appunti di un viaggio nel Benin

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Viaggio in Benin

Mi fa pensare molto la foto del Cappuccino bianco ( che non è una nuova moda al bar). All’ordinazione di un nuovo sacerdote camilliano africano, qui in Benin, i celebranti erano tutti Africani, Vescovo compreso, naturalmente, tranne un anziano frate cappuccino italiano.
Probabilmente, attraversando lo specchio, faceva lo stesso effetto un po’ di anni fa (ora non più), vedere un Africano passeggiare fra noi: tutti si giravano a guardarlo.

Al grande mercato di Cotonou (grande è dir poco, è immenso, ci si perde, c’è di tutto, dalle cose da mangiare, frutta e verdura con sapori che abbiamo perso, pesce secco, spezie, oggetti, animali vivi, tessuti e abiti confezionati di colori bellissimi, e altre cose che non saprei dire cosa sono), noi, pochi bianchi in giro, abbiamo probabilmente fatto lo stesso effetto.sacerdoti africani

La stessa figura a pranzo, dove chiedi se la polenta è di mais, o di manioca, o di igname
O in banca, dove pensi di sapere tutto. Invece per cambiare i soldi la fila scorre sulle sedie messe a quadrato e avanzi di un posto ogni volta, come in una scacchiera.

Viaggio in Benin: la Chiesa africana è una ricchezza

La Chiesa Africana è una fortuna e una ricchezza, per  la Fede, la Gioia, la liturgia animata. E anche per il numero di fedeli in chiesa non solo la domenica, e per i tanti giovani, e anche non giovani, che frequentano i seminari.

L’Africa è così, terra benedetta per le ricchezze e per la gente e maledetta per le guerre, lo sfruttamento, la colonizzazione, la schiavitù. Chi legge nei libri di storia che dalla costa dell’Atlantico, a Ouidah, un monumento ricorda gli otto milioni di schiavi partiti forzatamente per il “nuovo mondo”, non si sa se arrivati, ma sicuramente non tornati, come ricorda la “Porta del non ritorno”?

Il camilliano fratel Carlo Mangione
Fratel Carlo Mangione nella missione Camilliana in Benin

Nel viaggio in Benin incontri straordinari

E le persone straordinarie che incontri. Come Grégoire Ahongbonon, che in gioventù faceva il gommista. E che si occupa da più di trent’anni di togliere i malati mentali dalla strada o liberarli dalle catene (di metallo arrugginito, non solo del pregiudizio). Curando e assistendo in tanti anni e in tanti luoghi migliaia di persone con le Comunità della “Association Saint Camille”.
E i Padri Camilliani, che da cinquant’anni vivono la missione, l’ospedale, e poi il seminario.
Poi la gente, l’accoglienza, i bambini tantissimi e bellissimi, l’ospitalità.
E il verde, che ti entra negli occhi e ti dà quel senso di “essere tornato a casa”, come forse era nel paradiso terrestre.

Le contraddizioni non mancano. I viali asfaltati con a lato bei palazzoni nella zona dell’aeroporto e delle ambasciate. E le strade sterrate (nella migliore delle ipotesi, quando non sono più buche piene di fango che strade), e le capanne nei villaggi in periferia, dove non sai come ci si possa vivere. (Ci hanno portato a salutare un’anziana malata, sdraiata, si fa per dire, su una stuoia, in una stanza al buio  e nient’altro).

Missione camilliana in Benin
Missione camilliana in Benin

Viaggio in Benin: i segni del progresso

E i pochi ma grandi supermercati all’ europea, dove trovi tutto (e a caro prezzo), compresi gli spaghetti di marca e la famosa crema alle nocciole. E i negozietti-baracchette lungo le strade, aperti da mattina a notte, che vendono di tutto, ma raramente vedi chi compra.

Poi i segni del progresso: i telefonini, le migliaia di moto. Andare in mototaxi, con chi guida rigorosamente col casco e quelli che stanno dietro senza, è un’avventura. (Ne abbiamo contati fino a sei, bambini compresi, su una moto).

L’Africa è questa, o almeno questa striscia lunga e stretta che è il Benin (che prima si chiamava Dahomey ed era territorio di Re importanti).

Se vuoi capirla poco poco di più, senza presunzioni e preconcetti, né all’opposto sentirsi africano senza esserlo, devi andarci. Toccare la terra rossa, assaggiare tutto (o quasi), incontrare la gente. E stai attento al mal d’Africa, che non perdona.

 

Pippo Scudero

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