L’attacco unilaterale e preventivo di Israele all’Iran – a cui si è perfino aggiunta l’appendice del bombardamento americano su Teheran – ha messo in agitazione ed in allarme l’opinione pubblica mondiale. Ha destato profonda preoccupazione sotto il profilo della tutela della pace globale. All’attacco di Gerusalemme, ha fatto seguito la replica iraniana. Poi c’è stata la guerra delle parole e delle minacce. Soprattutto, degli aggressori verso gli aggrediti. Gli Stati Uniti di Trump si sono schierati dal lato dell’Esecutivo genocidiario. E tutto questo ha sparso sconcerto e timore nel mondo. Sentimenti, peraltro, variamente e vivamente manifestati sia da Pechino come da Mosca, le altre due superpotenze in rapporti commerciali e di alleanza con Teheran. Per fortuna, alla fine, il buon senso sembra abbia avuto il sopravvento.
Similitudini con il conflitto Iracheno del 2003
L’impressione che stesse per essere avviato un nuovo conflitto americano del Golfo, come quello del 2003 contro l’Iraq, aveva tuttavia preso corpo. Tanto importanti, significativi e simili a quell’evento di 22 anni fa, erano i punti di riferimento e le analogie. E tanto inquietanti le prospettive che lo riconducevano proprio a quel contesto storico.

La Comunità internazionale condanna l’aggressione
L’attacco israeliano all’Iran con pesanti bombardamenti dei siti nucleari ed energetici del Paese ed il grave tributo di vittime (più di 500, tra morti e feriti) che ha inferto alla popolazione civile, ha provocato ingenti problematiche alle installazioni dei siti nucleari.
E, di conseguenza, ai funzionari ed ai tecnici addetti al controllo del programma nucleare ad uso civile.
L’inatteso agguato ha provocato ovunque il netto isolamento dello Stato aggressore nella Comunità internazionale. Ciononostante, la guerra fatta di attacchi e contrattacchi è durata più di una settimana. Fino a quando, cioè, Mosca e Washington non hanno finalmente raggiunto l’accordo sulla cessazione del fuoco.
Quali le vere ragioni del conflitto?
I motivi non possono essere quelli pretestuosi, agitati e sbandierati da Gerusalemme. E l’aggressore è in aperta e chiara violazione del diritto internazionale. Che non fossero quelle le reali motivazioni, cioè che Teheran si fosse dotata di ordigni nucleari, è un fatto smentito categoricamente dall’A.I.E.A.(Agenzia internazionale per l’energia atomica), ma anche perfino dai Servizi d’intelligence statunitensi. Il giudizio sullo stato del progresso iraniano in materia nucleare non può non essere devoluto ai tecnici dell’AIEA.
In questo caso, le analogie con gli ispettori dell’ONU che nel 2003 avevano il mandato di ricercare in loco le presunte armi di distruzione di massa di Saddam Hussein (armi che non c’erano e furono costretti a ritirarsi precipitosamente dal loro lavoro a causa della guerra anglo-americana) sono molteplici ed impressionanti.
E quella guerra fu dunque illegittima due volte. In primo luogo, perché era contro l’ONU, contro gli ispettori e quindi contro la comunità internazionale tutta, nel suo insieme. In secondo luogo, perché aggrediva senza motivo le Istituzioni ed i popoli dell’Iraq.
Questa guerra – se non si fosse fermata – si sarebbe avviata fatalmente, come quella del 2003, allo stesso livello, grado e spessore di antigiuridicità internazionale.
Nella politica estera di Khamenei la vera ragione del conflitto
Il vero motivo del conflitto politico tra Israele ed Iran, sconfinato sul piano militare, non è quello del pericolo dell’armamento nucleare che Teheran non ha in pratica mai avuto in dotazione, fin dal 1979. In caso contrario, dal 1979 ad oggi, il nuovo regime teocratico di Teheran lo avrebbe già fatto. Ed in quel caso, l’area nucleare sarebbe stata la deterrenza e mai nessun altro Paese lo avrebbe attaccato.
Il vero motivo del dissidio che separa Teheran da Gerusalemme sta nella politica estera della suprema guida spirituale del Paese, l’ayatollah Khamenei. Che, tra l’altro, è ritenuto un uomo di Stato piuttosto moderato. Teheran ha scambi commerciali soprattutto con Cina e Russia. Ha scambi commerciali (petrolio e materie prime), ma ha anche scambi tecnologici (armi) come le altre due superpotenze del Pianeta. Paesi oggi facenti parte del gruppo dei BRICS.
Una promessa elettorale da mantenere
Tutto questo può dispiacere ad Israele che sogna un cambio di regime a Teheran. Ma non può farlo da solo. Deve chiudere il sostegno degli USA che, a loro volta, dovrebbero scendere in campo in una guerra distruttiva, così come nel 2003 contro Saddam Hussein. Ma tutto quello che si possa fare per soddisfare le pretese di un alleato arrogante e presuntuoso, vale poi fino in fondo la pena di farlo? Trump sta valutando – si spera con buonsenso – l’opportunità di non fare una guerra del genere. Allora, se la veda Gerusalemme da sola!
Vi sono motivi politici che non vanno certo nella direzione di una guerra americana di sostegno a Gerusalemme contro Teheran, per motivi di scambi commerciali. I democratici, certamente, sono nettamente contrari. Ed i repubblicani, in parte pure. Il presidente si troverebbe isolato di fronte ad un Congresso in buona parte contrario. E, per giunta, con la pessima immagine di aver violato la promessa elettorale. Di essere cioè il presidente della pace e non della guerra.
Trump non può sostenere a lungo Netanyahu
Il problema più scottante per il capo dell’Esecutivo statunitense è il sostegno troppo prolungato a Netanyahu. Perché troppo prolungato? Perché la strage dei Palestinesi continua e non si ferma. E perché l’Esecutivo israeliano non può fare altro che mettersi a disposizione della Corte Penale dell’Aja. Non potrebbe stare di certo al suo posto, se non disponesse del sostegno americano. Ma agli USA conviene sostenere un personaggio come Netanyahu? Una cosa è l’alleanza tra Gerusalemme e Washington – che nessuno mette in discussione – un’altra cosa è il sostegno ad un personaggio sotto accusa per orrendi crimini. Un sostegno che deturpa l’immagine stessa di Trump.
Onorare la memoria del senatore Robert Kennedy
Il 16 marzo 1968, il senatore Robert Francis Kennedy pose la candidatura alla Presidenza degli Stati Uniti. Ed affermò testualmente: “Punto alla Casa Bianca perchè voglio che il Partito Democratico e gli Stati Uniti siano il simbolo della speranza e della riconciliazione tra i popoli, e non quello della disperazione e che porta alla guerra”. Parole profetiche, solenni ed impegnative. La questione che si pone per il presidente Trump, il cui Esecutivo ha tra i suoi ministri proprio il figlio del Senatore di New York, martire della Democrazia, è la seguente: come intende onorare, il presidente, la memoria del Senatore, padre del suo ministro della Sanità?
Non certo sostenendo a spada tratta l’esecutivo di Netanyahu. Vuole impedire o no la disperazione ed il genocidio del popolo Palestinese? Lo stato ed il popolo di Israele hanno diritto di essere rappresentati da governi migliori. Anche Rabin fu un martire per la pace. Anche Olmert è stato all’altezza di una politica equilibrata e moderata. Dunque, Netanyahu non è indispensabile. Se lo è in qualche cosa, lo è solo per la causa della disperazione, della violenza e della guerra. Quindi, il presidente Trump è chiamato a scegliere da che parte stare.
Il tribunale dell’opinione pubblica mondiale
Nel corso della crisi missilistica dei 13 giorni dell’ottobre 1962, vi fu anche il duro confronto tra i due ambasciatori all’ONU, lo statunitense Stevenson ed il sovietico Zorin.
Ci fu un momento in cui Adlai Stevenson mostrò a Zorin le prove, cioè le foto dei siti missilistici a Cuba. Zorin si difese, dichiarando di non trovarsi di fronte ad un tribunale americano, facendo anche una chiara allusione alla professione legale di Adlai Stevenson, già governatore dell’Illinois.
Ma Adlai replicò molto efficacemente al russo, affermando che in realtà si trovava di fronte al Tribunale dell’opinione pubblica mondiale. Fu una difesa talmente efficace che passò alla storia come “The moment of Adlai”.
Oggi, per giudicare in merito alle azioni politiche, non c’è bisogno di trovarsi dinanzi all’Assemblea dell’ONU. L’opinione pubblica mondiale – che di norma è l’Assemblea Generale dell’ONU – giudica con i Media e con i Social ed è in grado di formare un convincimento di ogni fatto storico. Senza necessità d’informarsi tramite l’Assemblea dell’ONU.
Conclusione
L’opinione pubblica mondiale si è già formata un suo giudizio su Netanyahu. Con riguardo ai crimini di cui è accusato. E si formerà un giudizio anche su Trump. Se il presidente americano vorrà ancora perseverare a sostenere Netanyahu, continuerà ad impedire la cessazione dei massacri a Gaza e dintorni.
E dopo il Tribunale dell’opinione pubblica mondiale, a giudicare e farsi un’opinione dei fatti, c’è il Tribunale della storia. Poi, alla fine della vita di ciascuno di noi, il giudizio del Tribunale di Dio non è, in alcun modo, evitabile. E secondo il preciso peso della responsabilità che incombe su ciascuno di noi (“A chi più è stato dato, più sarà chiesto”).
Sebastiano Catalano
Giovanna Fortunato