Vigna e dintorni / Monacella ricca di storia e umanità

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Vigna e dintorni a Monacella riparo vendemmiatori
Scorcio della proprietà Maccarrone, Monacella (Santa Venerina)

Monacella è una delle tante perle etnee assopite nella surreale zona rossa che viviamo in Sicilia. Oggi è uno dei tanti giorni, nella suddetta zona rossa, ma il tempo sembra di un’altra idea: il cielo è tinto di azzurro, c’è un’aria piacevole e il sole splende abbastanza per convincermi a uscire per una passeggiata. Anche se questo comporta allontanarsi oltre i perimetri della propria abitazione e lambire i confini del proprio comune. Mettersi in sintonia con la natura non dovrebbe mai essere un limite. Perché, in fondo, la natura non è un posto da visitare. È casa nostra.

Un luogo solitario

Così è stato. Il percorso che ho affrontato è in salita, in direzione Monacella, la frazione più piccola e più elevata del Comune di Santa Venerina (il punto più alto è 536 s.l.m.). Porta dentro di sé la bellezza delle cose semplici e la sua etimologia lo conferma. Monos proviene dal greco e significa “unico, solo, solitario, isolato”, mentre dalla voce latina deriva cella, che sta a indicare un luogo dedito al raccoglimento, alla pia pratica della preghiera (tipica quella dei monaci nei conventi).

Un angolo incontaminato

La Monacella, si legge nel dizionario del Devoto-Oli, è pure una chiesetta campestre officiata da uno o più monaci staccati da un’abbazia. Nei dintorni della borgata si trovavano non a caso due eremi di antico splendore, oggi ruderi: quello di San Giacomo di Zafferana Etnea e quello di Santo Stefano di Dagala del Re. Nei pressi del torrente Gulli sono in parte visibili delle grotte scavate nella roccia lavica utilizzate, secondo la testimonianza di don Giuseppe Cardillo, per la meditazione dei monaci che abitavano in questo angolo incontaminato della natura, ricca di macchia mediterranea, di antichi querceti e il cui paesaggio è disegnato da terrazzamenti e vigneti un tempo rigogliosi.

Quelle casette di pietra lavica

Superata la chiesa del borgo, intitolata a San Mauro abate e risalente al 1788, la strada si fa a serpentina, a sinistra si erge Tenuta Vigna Patrizia, azienda vitivinicola sorta nel 1858, mentre a destra troviamo la proprietà che apparteneva, come mi riferiscono le persone anziane del luogo, a “don Camelu ‘u rizzu”. Quest’ultima proprietà è coltivata a vigneto anche se oggi versa in uno stato di incuria.

Questi particolari ripostigli erano presenti nelle vigne dell’Etna di una volta. Venivano utilizzati soprattutto per riporre al sicuro gli attrezzi da lavoro.

Sparse in tutta la vigna e di diversa dimensione sono ancora visibili delle piccole casette in pietra lavica. Alcune sono poste in prossimità della strada provinciale che conduce a Petrulli (Zafferana Etnea), altre incastonate nei muri di pietra lavica “a secco”, una addirittura ricavata nella roccia. La mia attenzione è stata così subito attirata da questi veri e propri reperti della civiltà contadina ed enologica di un tempo che fu.

Funzione molteplice

Servivano anzitutto da ripostiglio per gli attrezzi per la lavorazione del terreno: l’aratro, con il quale si rivoltava periodicamente la terra per liberarla dalle erbacce, la zappa per mescolarla e preparare le conche per le giovani barbatelle, il piccone per frantumare le pietre di origine lavica e ricavarne così i pezzi per i muri dei terrazzamenti. E potremmo continuare con una moltitudine di altri attrezzi  come “la birrina, lu mpalaturio e lu zzappuni strittu”, tutti molto pesanti e perciò lasciati in prossimità del posto di lavorazione in vigna.

Luoghi di ristoro

Qui ripostigli servivano anche per il ristoro dei vendemmiatori e per ripararsi dalla pioggia. Il pregiudizio del tempo indicava che costoro più mangiavano e più lavoravano. Del resto una giornata di lavoro in vigna durava, secondo il detto dell’epoca, “da suli in suli”. Si mangiavano anche fino a sei pasti al giorno, cibi che oggi non faremmo fatica a definire ruvidi e forse indigeribili. Ma tant’è che ricaricavano di forze e buon umore quei lavoratori che di certo non potremmo definire fannulloni: spesso a quei tempi lavorare in vigna, seppur in condizioni all’estremo, significava assicurarsi del cibo.

Prove di vocazione

E poi c’è un aneddoto, appreso dalla diretta testimonianza di un conoscente dei proprietari e che più si lega alla storia personale del figlio di “don Carmelu ‘u rizzu”. Lui si chiama Alfio e sin da bambino prendeva parte alla vendemmia, ne seguiva i ritmi e coltivava una vocazione particolare. Capitava spesso, infatti, che uno di quei ripostigli venisse frequentato dal piccolo Alfio per recitare per finta la messa. Se lo ricordano in ginocchio, con le mani giunte a inscenare il rito della Messa balbettando un latino imbruttito che suscitava sì stupore ma anche tenerezza. E tutto questo mentre intorno si effettuava la raccolta dell’uva. Sembra quasi di stare di fronte a una scena del film Diario di un curato di campagna (1951) di Robert Bresson.

Il ricordo

Padre Alfio Maccarrone a Monacella
Padre Alfio Maccarrone (foto d’archivio La Voce dell’Jonio – 2014)

Don Alfio Maccarrone, per il suo luogo natale (Monacella, 29 luglio 1926) e per la sua lunga guida alla parrocchia di Santa Maria la Scala (per ben 60 anni), venne ribattezzato “uomo di campagna e prete di mare”. Fu ordinato sacerdote il 2 luglio del 1950. Frequentò la vigna di Monacella fino a un mese prima di lasciare questa terra (morirà il 7 novembre del 2018). Per il legame con questo luogo della sua infanzia fece costruire una cappella dentro la sua proprietà.

Fatica, fede, storia

Il comprensorio dell’Etna, con il suo parco e le sue riserve naturali, è una miniera di segni e testimonianze del vissuto di una volta. Il nostro vulcano parla di fatiche. Dopo aver compiuto questi lavori i contadini si sentivano più legati alla terra perché, oltre a una risorsa, era considerata un’ideale di vita. Parla di una fede spicciola ma tenace: quella che partiva, appunto, dalla terra, per “cercare le cose di lassù” (Col,3). E parla infine di storia: quante cose si scoprono passeggiando. Occorre aprire il cuore e avere sete di curiosità. Perché, riprendendo le parole del naturalista John Muir, “in ogni passeggiata nella natura l’uomo riceve molto di più di ciò che cerca”.

Domenico Strano
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