Elezioni USA / Il vivace confronto Trump- Biden non dissolve l’incertezza sull’esito delle presidenziali

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La campagna elettorale negli Stati Uniti sta vivendo gli ultimi sussulti ed in termini sportivi, si potrebbe dire quasi giunta al “giro di boa, in direzione del traguardo”, cioè dell’election-day del tre novembre e sta offrendo al pubblico, in modo evidente e marcato, tutte le differenze tra i due aspiranti alla  Casa Bianca, Donald Trump e Joe Biden, quanto a stile, passione professionale, divergenze di carattere, diversità di programmi politici.
Sono presenti, quindi, due visioni nettamente diverse, riguardo soprattutto a quello che dovrà essere il ruolo degli Stati Uniti nei prossimi quattro anni e nel panorama mondiale, con disparità di vedute, appunto nette e chiare, all’interno della politica statunitense e progetti ed obiettivi politici immediati e futuri, dell’America del nostro tempo, completamente dissimili.

In questo, ci troviamo, per fare solo un esempio, nettamente distanti dal 1960, non solo per alcune roboanti affermazioni di questa campagna, particolarmente aspra e combattuta, ma anche, più in generale, per il clima politico, ovvero la “febbre politica”, di questi ultimi due mesi, che sta caratterizzando questa sfida per la Casa Bianca e la sta distaccando, nelle modalità esecutive, da quella lontana epoca storica, quando le dissimiglianze tra i candidati e le stesse iniziative politiche, sembravano meno appariscenti, definite o chiare, al punto da lasciare proporre ad Arthur Schlesinger – che fu consigliere politico, prima del candidato democratico alla Casa Bianca, del 1952 e del 1956, Adlai Stevenson, e successivamente, consigliere speciale del Presidente John Kennedy per l’America latina – quel titolo della sua pubblicazione del momento: “Kennedy o Nixon, c’è una differenza?”.  Ecco allora che il confronto tra i due candidati si presenta oggi tra i più interessanti e tra quelli più meritevoli di approfondimento, della storia delle piattaforme politiche, scelte, presentate ed approvate poi dalle rispettive  Conventions.

Occorre preliminarmente osservare che, anche in occasione del Congresso democratico, Joe Biden non è sfuggito alla tentazione – sempre presente nell’ arena americana degli ultimi quattro anni – di lasciare spazio a dichiarazioni sensibilmente polemiche, all’indirizzo degli avversari, unite a slogans, messaggi generici e ricette semplicistiche, tutte cose che non mettono sicuramente bene a fuoco, nella gara per la Casa Bianca, le delicate questioni sul tappeto. Tali, in effetti, sono sembrati i programmi esposti dai leaders democratici in materia economica e gli  altri documenti relativi alla crisi razziale ed all’emergenza da corona-virus-. Trump ha presentato – nonostante il Covid-19 – una posizione  economica e della Borsa-valori, della Nazione, in netta ripresa, rispetto a quella ereditata da Obama.

L’efficace riforma fiscale, con i risparmi sulle tasse per le famiglie, ed il ceto medio in generale,  la sollecita e forte ripresa dell’occupazione – la più alta degli ultimi 47 anni – con pari opportunità per tutti, e soprattutto, la riduzione dell’esposizione debitoria dei titoli pubblici, verso la Cina, hanno rappresentato un importante risultato, degno del massimo rispetto, quanto ad effetti psicologici e connesso valore politico.
Di fronte all’ampio sforzo prodotto dall’Amministrazione uscente,  per far fronte ad una crisi di natura economica ed occupazionale molto delicata e seria e con i risultati riconosciuti dalla generalità dei commentatori politici, i democratici hanno per ora proposto l’aumento delle tasse per i ricchi e le corporations, mentre la ricetta economico-finanziaria, il vero e proprio piano, alternativo a quello Repubblicano, resta in attesa ancora di ricevere nuove ed altre precisazioni e chiarimenti opportuni.

Joe Biden e la sua vice Kamala Harris

Per quanto concerne i problemi della giustizia razziale, sollevati dalla uccisione a Minneapolis di George Floyd, con responsabilità di agenti di polizia di quella città, non sembra ben calibrato o comunque ben appropriato il punto di vista esposto dal candidato democratico, d’impegnarsi a tagliare drasticamente i finanziamenti ai Dipartimenti di polizia, invece di garantire – come puntualizzato proprio da Donald Trump – il rispetto della legge, “in maniera completa e piena, anche quando un poliziotto sbaglia”. Ci sono state le rimostranze degli “Antifa”, con risvolti molto violenti, con fiancheggiatori e vandali, che hanno distrutto  proprietà private.
Poi è successo un altro caso: un cittadino afro-americano, colpito con sette colpi di pistola dalla polizia alla schiena, il quale resterà, con ogni probabilità, paralizzato.
L’organizzazione “ombrello” ha provocato nel Wisconsin l’altra campagna di violenze destabilizzanti: proteste, incendi dolosi, clima da insurrezione, omicidi, quasi un preavviso da guerra civile. Trump non ha agito subito e non poteva disporre della Guardia Nazionale, senza il consenso del governatore dello Stato, mentre poteva disporre dell’F.B.I., solo se fosse stata in pericolo qualche proprietà dello Stato federale. Diversamente, la questione non doveva che restare confinata nella competenza del governatore dello Stato. Il Presidente ha rispettato le limitazioni del suo Ufficio ed il suo compito è stato quello di calmare gli animi. L’opinione pubblica esige infatti ottimismo e speranza, non vuole ideologie e caos economico: l’impressione appresa è stata contro il partito democratico, e cioè che gli Stati governati da quella parte politica, siano poi quelli più mal gestiti, dal punto di vista del Law and Order.
La maggioranza “silenziosa”, che constata indecisioni ed insicurezze, probabilmente approverà col proprio voto Trump. Nella storia passata di altre elezioni, la maggioranza “silenziosa”, che tifava per legge ed ordine, ha votato per altri presidenti repubblicani, come Nixon e Reagan.

Un motivo, invece, che è andato ben al di là della vivacità della contesa sulle diversità e specificità delle connotazioni partitiche di schieramento, ha toccato l’errato convincimento, sempre tra i democratici, che Trump abbia sottovalutato il Covid-19, omettendo in qualche modo di mettere a punto tutti i mezzi necessari a tutelare la popolazione americana, durante la pandemia. In effetti, si è trattato niente altro che di una polemica, in fondo solo pretestuosa, che non ha voluto minimamente prendere atto delle informazioni diffuse dall’Esecutivo , non solo con riferimento all’organizzazione dei mezzi di tutela (ventilatori polmonari e mascherine e quanto altro si rendesse necessario) ma anche e soprattutto con riferimento al necessario sviluppo del trattamento che ha salvato molte vite, noto come il “plasma  convalescente”. La polemica sollevata dall’opposto schieramento è sembrata quanto mai debole, e soprattutto poco costruttiva e, quindi, sterile.
Il Presidente ha pure spiegato i motivi per i quali non ha introdotto un lockdown, generalizzato ed esteso a tutto il Paese. Evitando d’intraprendere misure estremamente dolorose, pesanti e gravi, e soprattutto non necessarie, ha tutelato, nei limiti del possibile, l’economia statunitense. Le incognite da crisi razziale e da corona-virus, potrebbero alla fine premiare il Presidente in carica, rispetto allo sfidante. Ha agito con prudenza e circospezione e questi fattori, insieme con la ripresa economica, potrebbero finire per avvantaggiare la riconferma dell’Amministrazione uscente. Il Covid-19 e la pace razziale, rimangono – più di qualsiasi altro argomento – in cima alle preoccupazioni degli Americani.
Ma, se l’emergenza da Covid-19 non è ancora finita, c’è sempre un’altra emergenza, ed è quella relativa al clima e cioè il riscaldamento globale. In effetti, i temi che esercitano il maggiore impatto sulle elezioni riguardano la situazione economica, e lo stato della salute generale, col virus sotto controllo e la pace sociale. Il contributo a questi tre temi, dato dall’Amministrazione attuale, è stato ben evidente. E’ peraltro vero che Trump è stato finora piuttosto scettico riguardo al valore di un grande accordo mondiale sui mutamenti climatici. Questo non autorizza affatto a prevedere che sarà Biden a riportare gli Stati Uniti entro gli accordi di Parigi. Trump si sta dedicando a risolvere positivamente altre emergenze, altre preoccupazioni che sono in cima ai pensieri degli americani. Il Green New Deal avrà allora il suo impatto sull’economia americana? Al momento, l’elettorato ha, fino ad oggi, approvato piuttosto la deregulation economica di Trump e l’esito delle elezioni del 2016 ha dimostrato che lo spazio ai problemi ambientali riveste una valenza ancora molto mediatica, ma meno politica. Forse la middle-class, che ha votato repubblicano nel 2016, ha finora ritenuto l’ambientalismo una sorta di radicalismo del Partito Democratico. Certo, il problema climatico non si risolve evitando di prenderlo in considerazione. D’altra parte, esso non si limita soltanto all’aspetto industriale dell’inquinamento, come è nell’agenda del PD, ma sussiste anche il problema dell’inquinamento nucleare (John Kennedy all’ONU nel 1963).

Bisogna dare atto all’Amministrazione di essersi astenuta da avventure belliche estere, mentre è noto che Biden, da senatore, votò per la guerra, tragica ed illegittima, in IRAQ, del 2003, e nessuna garanzia ha dato finora che, qualora eletto presidente, si asterrà da campagne militari estere, come ha invece finora provveduto a fare Donald Trump. Sarà compito della nuova amministrazione americana, riprendere le discussioni e le trattative (con Russia e Cina) per un accordo globale sul divieto generale degli esperimenti nucleari, dopo il trattato parziale, firmato dal Presidente John Kennedy, dal Presidente Nikita Khrushchew, e dal Primo Ministro Mc Millan, nel 1963. Il miglioramento della situazione ambientale dipende dai prossimi passi delle Grandi Potenze del Globo. D’altra parte, bisogna cambiare non solo il nucleare, ma “tutto ciò che porta danni alla salute. Un nuovo modello di crescita economica richiede rispetto per la natura e per le persone. Custodire l’ambiente e coniugare le colture con le conoscenze tecniche, per uno stile sostenibile”. (Papa Francesco, Catechesi del 16/09/2020). Il tema ambiente – che riveste a tutti gli effetti aspetti sommamente etici e che coinvolge quindi in una unità di intenti, entrambi i partiti che si contendono la Casa Bianca – dovrebbe far parte, in tutti i suoi risvolti, economici e militari, dell’agenda del prossimo inquilino di Pennsylvania Avenue.

L’altra materia, pure di rilevantissimo spessore ed interesse etico, è quella che si riferisce alla difesa della vita, fin dal suo concepimento e, quindi, alla legislazione anti-aborto. Un tema che tocca così da vicino l’animo di ciascuno di noi non dovrebbe essere o formare mai oggetto di accesi dibattiti politici, non dovrebbe cioè generare incomprensibili contrapposizioni tra i partiti e perfino all’interno di essi e, in una parola, dovrebbe unire tutti i gruppi politici nel rispetto verso la vita.
Come Reagan, e forse ancor più del carismatico Capo dell’Esecutivo, che guidò gli Stati Uniti per otto anni, negli ottanta, Trump ha preso posizione, con vivissima sensibilità, su questo fondamentale tema etico. Ha provveduto a nominare – dal 2017 fino ad oggi – tre magistrati anti-aborto alla Corte Suprema di Washington ed ha riconfermato la sua opposizione appunto all’aborto in maniera forte, aperta, decisa, chiara ed inequivocabile, ha criticato il Partito Democratico, sulla base del ragionamento della solidarietà espressa dagli avversari politici, ai soggetti più deboli, ma senza proseguire in verità  nella coerenza fino in fondo in questo programma, perché “supporta le leggi più estreme per l’aborto a fine gravidanza di bambini senza difese fino al momento della nascita”.
In effetti, il dovere fondamentale e più importante, per qualsiasi amministrazione, è la tutela della vita.  La piattaforma democratica ammette l’aborto nei casi di violenza sessuale, pedofilia, ovvero quando sia in pericolo la vita della madre. L’equivoco in cui incorrono gli elettori democratici statunitensi, i quali, dai risultati di un sondaggio, si dimostrerebbero per circa il 56%, favorevoli all’aborto, resta quello di giudicare un chiaro atto di violenza come se fosse un mezzo di autodeterminazione del corpo della donna, cioè una espressione della libertà della donna. E’ un fatto veramente sconvolgente, e rattrista molto, per motivi giuridici, psicologici e morali. E’ ammissibile che proprio il candidato democratico alla Casa Bianca, Joe Biden, che tra l’altro professa pure la Fede cattolica, rimanga “intrappolato ovvero prigioniero”, dentro la piattaforma programmatica democratica, inclinata in una posizione pro-aborto? La caccia al voto, allora, sarebbe in tal caso, più importante dei principi morali?  Questa supposizione potrebbe avere allora qualche fondamento solo se Joe Biden non si fosse dichiarato obiettore di coscienza, sul delicato tema dell’aborto. Così, mentre da un lato – secondo il sondaggio – la maggioranza dell’elettorato democratico si verrebbe pertanto a trovare in sintonia col candidato cattolico Biden sul diritto all’aborto fino all’8° mese di gravidanza, dall’altra parte proprio il Presidente Donald Trump, appartenente alla professione di Fede Protestante, ha difeso e sta continuando a difendere il diritto alla vita con molta più forza del suo avversario. È possibile, e plausibile, allora che l’altra parte dell’elettorato cattolico (44%) possa esprimere, il suo convincimento nel sostenere l’Amministrazione uscente, la quale chiede la riconferma, in virtù proprio del fondamentale valore etico, a cui la minoranza democratica, chiaramente aderisce.

Queste divisioni – soprattutto sui temi e contenuti esclusivamente morali – che non dovrebbero sussistere in realtà mai, e neppure in un momento di pur dura contrapposizione tra aspiranti e gruppi sostenitori, facenti parte degli schieramenti che aspirano alla meta della Casa Bianca, mettono in rilievo soprattutto la necessità che il corpo elettorale, al momento dell’espressione del diritto di voto, operi con oculatezza e responsabilità. Per ciò che riguarda le elezioni del 3 novembre, al momento Trump può contare su 125 delegati, mentre Biden a sua volta ha ricevuto dichiarazioni ed approvazioni a suo sostegno da 222 delegati. I due competitori necessitano dunque ancora di una importante quota o parte di quei “grandi elettori” che si riserva di decidere ed è indispensabile al raggiungimento dell’importante numero di 270 delegati, costituente la metà più uno (269+1) degli aventi diritto, sulla quantità complessiva di 538, grandi elettori, che conferisce la vittoria al candidato-presidente.

La corsa alla Casa Bianca sta mantenendo ampiamente fino ad ora le previsioni iniziali dell’estrema incertezza del risultato finale, e non è possibile pertanto costruire ipotesi sul modo in cui la competizione potrà essere decisa, dato che perfino poche centinaia di voti in più, all’uno o all’altro dei due sfidanti, potranno costituire la differenza. In linguaggio sportivo, si potrebbe affermare o ragionare di una vittoria sul filo di lana, ovvero al fotofinish. Le ultime proiezioni rivelano o presentano un vantaggio di sette punti a favore di Joe Biden, ma questo elemento, nella cornice particolare del sistema politico statunitense, non sembra rivestire un fattore strategico decisivo, mentre sembrano più determinanti ed in grado di mutare od orientare l’esito della gara, quelle che saranno le decisioni di voto di quei pochi Stati che, per tradizione, restano incerti fino all’ultimo momento, e cioè la Pennsylvania (20), l’Ohio (18), l’Indiana (11), il Michigan (16), il Wisconsin (10), l’Iowa (6), il Missouri (10), il Nord Carolina (15), la Florida (29) e la Georgia (16), che tutti insieme costituiscono quel serbatoio di consensi dei 151 grandi elettori del Presidente degli Stati Uniti, che rimane decisivo e si aggiungerebbe ai 222 “sicuri” per Joe Biden, ovvero a quei 125 “sicuri” per Donald Trump.

È poco probabile tuttavia che lo sbocco del voto conduca ad una “congiuntura”, con perfetta suddivisione a metà, o comunque perfetta coincidenza, dei voti dei grandi elettori, tra i due candidati alla Casa Bianca. Tale ipotesi conferirebbe alla Camera dei Rappresentanti il potere di eleggere il presidente americano, con i suoi 435 seggi, rinnovati interamente ogni due anni. L’ipotesi, nel caso odierno, si presenta in verità abbastanza remota, non solo o non tanto per essersi avverata in passato in un’epoca storica molto distante da oggi. In verità, negli ultimi cinquanta anni e nelle due sole occasioni in cui erano presenti probabilmente ed in parte, le condizioni perchè  il  temuto – dal punto di vista istituzionale – pareggio dei consensi si potesse realizzare anche con la discesa in campo del candidato indipendente alla presidenza (il c.d. “terzo candidato”) e cioè, nel 1968 con George Wallace, e Nixon ed Humphrey in lizza, e nel 1992, con Ross Perrot, in campo, e Bush sr e Clinton a contendersi tra loro la Casa Bianca, in pratica, come si è visto, siffatta costruzione teorica non è poi avvenuta.

Mentre gli istituti demoscopici stavano lavorando all’analisi ed all’interpretazione dei risultati prodotti dai sondaggi, l’attività del Presidente in carica (e candidato alla rielezione) ha sorpreso tutti, con un importante annuncio.
In primo luogo, il 13 agosto, tra gli Emirati arabi ed Israele, e successivamente tra il Bahrein ed Israele, dopo la lunga mediazione e la conseguente maturazione, guidate da Jared Kushner, sono stati proposti nuovi modelli di relazioni internazionali, fondati “sull’impegno a collaborare per trovare una soluzione negoziata al conflitto israelo-palestinese, che incontri le esigenze e le legittime aspirazioni di entrambe le parti, avanzando una pace comprensiva nel Medio-Oriente”.
Un importante annuncio, che ha avuto dunque un duplice significato o valore: dal lato del conflitto tra israeliani e palestinesi, muta gli assetti negoziali per come erano ingessati o bloccati, sulle conseguenze della guerra dei sei giorni, del 1967 (ritiro di Israele dai territori occupati  e rispetto dei legittimi diritti del popolo palestinese) e dal lato degli Stati Uniti, auspica il definitivo superamento delle vecchie ruggini tra arabi ed israeliani, con la promessa di creare il clima adatto per la normalizzazione dei rapporti (politici, diplomatici ed economici) tra loro e permettere, allo stesso tempo, agli americani di rendere più leggera la loro presenza militare nella zona, infestata da troppe guerre, ed interessata da moltissimi profughi.
L’augurio di tutti è ovviamente che queste iniziative di mutamento di clima politico, per una normalizzazione dei rapporti, possano essere accompagnate da altri importanti e consistenti accordi, con patti e/o veri e propri trattati.
Il Presidente Trump, dal canto suo, si augura anche che queste significative aspirazioni, messe in campo dall’Amministrazione – iniziative che intervengono a quasi trenta anni dagli accordi del 1994 e prima ancora ad oltre quarant’anni da quelli tra egiziani ed israeliani del 1979 – possano servire anche  per colmare il distacco dei sondaggi che lo separa dall’avversario democratico Biden e conta anche sull’approvazione degli elettori. D’altra parte, lo stesso Presidente sa che i suoi compatrioti – come ricordava l’illustre precursore, John Kennedy – sono soprattutto conservatori in politica interna (piena occupazione, bassa inflazione e bilancio in pareggio) ed internazionalisti in quella estera, e questa importante iniziativa dell’Esecutivo dovrebbe di conseguenza far ben sperare per l’esito del voto generale, dell’ormai prossimo tre novembre .

La sera del 29 settembre (corrispondente alle tre del mattino successivo in Italia), è andato in onda da Cleveland, Ohio, – uno degli Stati chiave indecisi e determinanti nel riepilogo finale dello scrutinio – il primo dei tre dibattiti televisivi in diretta, tra i due aspiranti presidenziali. In verità, esso si è risolto in una netta delusione per il pubblico, perché più che evidenziare le differenze programmatiche specifiche e le soluzioni proposte dai candidati, è scivolato in uno scambio di interruzioni ed accuse personali tra i contendenti, con polemiche su entrambi i fronti, che nell’insieme poco o nulla hanno aggiunto al divario esistente nei sondaggi, divario che, al momento, premia Biden, rispetto a Trump, avanti di alcuni punti.
Dalle prime indicazioni sulle impressioni riportate, sembra sia stato maggiormente il candidato democratico ad aver convinto, rispetto all’avversario, ma l’insoddisfazione, tuttavia è stata generale nel pubblico per entrambi. Non hanno toccato, sui problemi al momento esistenti sul tappeto (razzismo, corona-virus, economia) le risposte, rassicuranti e precise, pretese dagli Americani. L’incertezza sull’esito del voto, quindi, continua al momento, e non si dissolve-.

Sebastiano Catalano

 

 

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