Interviste / Mons. Raspanti sull’assemblea del Pontificio Consiglio della Cultura sul futuro dell’umanità: “Esserci per ascoltare, imparare, capire”

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Eccellenza, la ringraziamo per averci dato la possibilità di quest’incontro. Lo scorso 15 Novembre ha partecipato all’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, dal titolo “The future of humanity”, incentrata su alcuni temi importanti per il dibattito culturale dei nostri giorni, quali i diversi Modelli antropologici, le nuove scoperte della Medicina, della Genetica, delle Neuroscienze e della Robotica. Prima di entrare nello specifico delle sue impressioni su questi argomenti, le chiedo: Quale ruolo occupa la Chiesa nel dibattito culturale odierno?

Anzitutto il Pontificio Consiglio opera su base mondiale, infatti i componenti della Plenaria provenivano dai cinque continenti.  Da un po’ di anni la Santa Sede (il termine Chiesa in questo caso è troppo generico) comprende che c’è un enorme evoluzione nel mondo scientifico, che include riverberi culturali e sociali sulla vita della gente. Per questo motivo ha voluto essere presente per ascoltare, imparare e capire, al fine di valutare se, nella sua azione pastorale, può trarre delle conclusioni e delle indicazioni; quindi interagire in questi ambiti delicati nei quali si tenta di trasformare la configurazione dell’essere umano.
Oggi si assiste ad una forte crisi culturale, per tutta una serie di fattori, più o meno noti. Cosa può fare la Chiesa in Italia, in termini di azione pastorale, per venire incontro a questo genere di povertà?

Non essere assente nei tavoli di dibattito culturali (vedi mass-media, università) e cercare di stimolare il dibattito ricordando i valori, i grandi princìpi. Si assiste ad un grande decadimento perché spesso in tanti dibattiti si ha l’impressione che si siano smarriti i princìpi e i valori come grandi punti di riferimento. Alcuni dibattiti, infatti, vengono legati a interessi di parte o addirittura diventano auto-referenziali, quindi l’impoverimento diventa causa del decadimento culturale. Per ri-elevare il livello bisogna ricordare costantemente i principi e i valori della convivenza umana.

Nel contesto culturale plurimo nel quale viviamo e siamo immersi, e nel quale si sviluppa anche il progresso scientifico, la Teologia e, più in generale, la riflessione ecclesiale, vengono poste dinanzi a sfide sempre nuove: quale atteggiamento devono assumere?

Secondo me la grande difficoltà della Teologia odierna è la poca capacità di tradurre la riflessione interna nei linguaggi culturali più imperanti, quindi si vive una sorta di separazione ghettizzante.  Essa aggancia con molta difficoltà i linguaggi culturali principali. Per esempio, non riesce con facilità ad intromettersi nel mondo dei mass-media. Viene chiamata esclusivamente ad esporsi su temi scottanti di tipo morale, dando così l’impressione di occuparsi di piccole cose nelle quali spesso fa la figura della perdente. Con difficoltà entra in dibattiti nei quali potrebbe dire la sua. Si vedano ad esempio i modelli socio-economici e politici: dovrebbe tradurre i principi evangelici che professa nei linguaggi oggi imperanti. A mio parere sconta un gap di traduzione linguistica.

La Teologia, nella sua ricerca etico-pratica, e il Magistero spesso si sono serviti del personalismo ontologico come strumento per l’elaborazione di alcuni principi di valutazione. In un contesto culturale sempre più instabile pensa che questa sia una linea metodologica ancora adottabile?

Oggi abbiamo anche altre linee. Ad ogni modo, la linea personalistica è stata troppo interpretata all’interno di una visione eccessivamente individualista, nonostante i rimandi all’uomo come essere relazionale. Se vogliamo che questo rimando non sia una mera formalità dobbiamo dire che la persona è una sorta di ellisse relazionale a due fuochi, costituiti rispettivamente dal singolo e dalla comunità in cui vive. La persona senza la comunità non esiste. Diamo dunque lo stesso valore all’uno e all’altro focus! La persona non esiste se non all’interno di una comunità, anche obbedendo ad essa. Solo così si possono fare delle applicazioni etiche che tengano conto di un bene a largo raggio.

Nel corso dell’assemblea avete riflettuto sul concetto di “natura”. Oggi, in seguito ai progressi della Medicina e della Genetica, la definizione di ciò che è naturale e ciò che non lo è risulta sempre più complicata. In certi casi si arriva addirittura a pensare che è naturale solo ciò che porta al massimo livello l’utilità per l’uomo. Quale ruolo occupa in tutto ciò il disegno salvifico di Dio? L’uomo deve considerarsi un prevaricatore di questo disegno quando pretende di manipolare la natura?

Uno dei punti cruciali dell’assemblea è stato la considerazione dei vari modelli antropologici in voga. Uno dei più particolari tra i cinque che ci sono stati presentati è il modello emergenziale, secondo il quale ciò che è propriamente umano è ciò che emerge dalla materia e diventa pensiero, riflessione, spirito, ecc.; per cui non è data un’identità propria, ma tutto dipende dalla materia stessa. Da qui si incontra la difficoltà di individuare la natura dell’umano: esso è prodotto di procedure biochimiche o esiste qualcos’altro all’origine che guida tali processi? Ecco, questo principio agisce in essi, in quanto incarnato, ma non si può ridurre ad essi. Dunque se ne distingue. Questo è un punto cruciale, distintivo, e la maggior parte dei modelli antropologici vincenti oggi sostanzialmente non lo ammette. La questione della definizione di quella che si chiama “anima” o “mente” diventa cruciale allo scopo di capire se la natura è il codice genetico, dunque modificabile, o è più di questo dato strettamente osservabile. Senza tale definizione si ricade in un’obsoleta opposizione tra natura e cultura, tra ciò che è dato e ciò che posso farci sopra: tutto diventa naturalistico (modelli che partono dal dato) o ci si sposta sui modelli culturali in cui nulla è definito, in cui tutto diventa manipolabile a piacimento. Il punto di fondo è capire se per noi rimane qualcosa di altro dal neurone o dal gene e definire anche come questo qualcosa d’altro è all’opera in e per il neurone e il gene. Ora, per il mondo cattolico è così, ma si pone nuovamente il problema del linguaggio: le scienze infatti inseriscono le loro scoperte in un grande racconto coerente nel quale tutto ciò che si scopre è possibile, è solo questione di tempo. Ecco perché il Papa nel discorso a noi partecipanti all’assemblea ha detto «Non tutto ciò che è possibile è ammissibile», non perché si vuole porre un limite estrinseco alla ricerca, ma perché la ricerca per rispettare la stessa umanità deve sapere dell’esistenza di un limite, di una sorta di “segnale rosso” che mette in guardia sulla bontà o meno per l’uomo di questa o quella azione. Questo non vale solo per la medicina e la genetica, ma vale a tutti i livelli. Certo, capisco che a volte le invenzioni nascono superando quel limite: si sbaglia, ma a volte dopo alcuni errori viene quella giusta. Questo è un grande punto interrogativo.

L’avvento della Robotica ci ha mostrato come sia possibile creare delle intelligenze artificiali capaci di competere con quella umana. Non possiamo soffermarci in questa sede sulle diverse implicazioni e prospettive che questo ha per il futuro; tuttavia un tema particolare potrebbe interessare i nostri lettori: quello del rapporto tra l’uomo, le macchine e il lavoro. Che senso ha, in un mondo dominato dalle macchine, parlare di lavoro come fattore nobilitante e realizzante della realtà umana?

Qui ci sono stati fatti, da alcuni protagonisti della ricerca sull’intelligenza artificiale, alcuni discorsi abbastanza rassicuranti, ma anche realistici: la maggior parte di loro diceva che si perderanno molti posti di lavoro, ma saranno sostituiti da altri. Facciamo un esempio: il passaggio all’era digitale; è vero che molti hanno perso il lavoro, ma molti lo hanno trovato in questi nuovi ambiti. Nonostante ciò bisogna ammettere che è possibile che verranno penalizzati coloro che fanno dei lavori a bassissimo tasso di specializzazione e, se hanno una certa età, ciò potrebbe rivelarsi un problema. Nel complesso, però, il gioco delle generazioni tende ad equilibrarsi. É vera anche un’altra difficoltà: ogni rivoluzione industriale (questa sarebbe la 4.0) crea l’accumulo di ricchezze nelle mani di pochi, perché pochi hanno la possibilità di creare nuovi robot, nuove soluzioni. In queste fasi di passaggio la classe media crollerebbe economicamente e socialmente. Gli economisti però ci hanno detto che questo è un problema politico, non economico…cioè è un problema politico tentare meccanismi di equa distribuzione della ricchezza. Ma bisogna domandarsi: perché già ora è in crisi la stessa classe politica? Poiché le grandi catene multinazionali travalicano i confini dei singoli stati e chi governa lo fa entro i confini di uno stato. Ad esempio, l’Italia di fronte ad un colosso economico può fare qualcosa, ma non moltissimo. La crisi nasce perché il raggio d’azione è impari. Allora bisognerebbe trovare un nuovo modo di governare che permetta di equilibrare i grandi poteri, quindi di tentare di distribuire la ricchezza. In questo senso qualche tentativo inizia a prendere corpo. All’assemblea erano presenti alcuni rappresentanti di multinazionali che hanno tentato di stabilire dei forum di autoregolamentazione ai quali, auspicano, possano partecipare anche rappresentanti della società civile per tentare una nuova governance. Basterà? Questo è un grande punto interrogativo. Noi cattolici, e non solo, siamo preoccupati di fronte a questo, perché la classe dei più poveri rischia di pagare un prezzo molto alto.

Francesco Pio Leonardi

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